Il futuro dei 27 potrebbe essere uno schema a cerchi concentrici o a “tre velocità”. In altre parole, i Paesi come quello di Zelensky potrebbero essere accolti sulla base di una membership semplificata, che contempli l’adesione al mercato unico e la partecipazione ai processi democratici. Il commento di Giovanni Castellaneta, già consigliere diplomatico a Palazzo Chigi e ambasciatore negli Stati Uniti
Sono maturi i tempi per l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea? E, qualora non lo fossero, quanto tempo occorrerebbe per consentire a Kyiv di entrare a pieno titolo nella “casa” dell’integrazione europea? Pensare a un’Ucraina all’interno dell’Unione europea è un’ipotesi affascinante e che risponde legittimamente alle aspirazioni del governo e della popolazione locali di far parte di uno spazio caratterizzato da un elevato livello di libertà, dal livello individuale a quello economico. Tuttavia, sono numerosi gli ostacoli che si frappongono con la realizzazione del “sogno europeo” di Kyiv.
Il primo (sembra quasi banale dirlo) è ovviamente lo stato di guerra in cui si trova il Paese. Finché continuerà l’invasione da parte della Russia e in mancanza dunque di certezza e integrità dei propri confini, non si potrà pensare all’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea. D’altro canto, non è possibile pensare a scorciatoie e quindi l’entrata pressoché immediata di Kyiv in Europa è una questione che nella realtà nessuno ha mai pensato di porre seriamente sul tavolo. Nel breve periodo, ciò che conta è il sostegno politico – oltre che militare ed economico – che fino a ora le istituzioni europee hanno dimostrato nei confronti dell’Ucraina. Il taglio di gran parte delle relazioni economiche ed energetiche con la Russia – realizzato a tempo record – unitamente alla vicinanza e alla solidarietà verso il Paese invaso (circostanza che non ha precedenti nella storia dell’Unione europea) sono segni tangibili di un percorso che si è ormai avviato e che un giorno si concluderà con l’ammissione dell’Ucraina.
Prima, però, c’è una lista di attesa da rispettare. Attualmente sono sette i Paesi candidati a entrare nell’Unione europea, la maggior parte dei quali da oltre un decennio. Certo, non tutti sono più molto motivati (come nel caso della Turchia o della Serbia), ma la procedura di ammissione richiede l’adempimento di condizioni necessarie a livello di rispetto dello stato di diritto e di stabilità macroeconomica che possono essere raggiunte solo dopo un certo numero di anni. E una democrazia ancora fragile come quella ucraina, che già prima della guerra era afflitta da gravi problemi di corruzione e la cui economia è stata devastata dalla guerra (nel 2022 è stato perso più del 30% del prodotto interno lordo), non può certo pensare di bruciare le tappe, offrendo condizioni preferenziali che susciterebbero comprensibilmente l’opposizione da parte degli altri candidati. Per non parlare delle potenziali problematiche interne che scaturirebbero con l’adesione dell’Ucraina alla Politica agricola comune, che è ancora oggi la prima voce del bilancio unionale: considerato il ruolo di “granaio del mondo” di Kyiv, i parametri dei sussidi agricoli sarebbe un processo da gestire con grande cautela.
Che fare, dunque? Il caso dell’Ucraina consente di riflettere su quello che potrebbe essere il futuro dell’Unione europea che, per non obbligare gli Stati della “periferia” a farsi carico di un’integrazione troppo onerosa (come per esempio l’adesione alla moneta unica), potrebbe prevedere uno schema a cerchi concentrici o a “tre velocità”. In altre parole, i Paesi come l’Ucraina potrebbero essere accolti sulla base di una membership semplificata, che contempli l’adesione al mercato unico e la partecipazione ai processi democratici ma che preveda invece condizioni più rigide dal punto di vista della libertà di movimento dei cittadini o dell’integrazione economica.
Un disegno del genere consentirebbe ai Paesi del nucleo fondatore di accelerare ulteriormente sul fronte dell’Unione economica e della politica di difesa e sicurezza, lasciando più liberi gli Stati che non sono interessati o che non hanno ancora raggiunto le condizioni necessarie, garantendo al contempo l’allargamento dello spazio democratico. Questa Europa a tre velocità avrebbe consentito, per esempio, di facilitare l’ingresso della Turchia nell’Unione europea quando, ormai quasi vent’anni fa, chiese di essere ammessa e fu appoggiata allora dallo stesso presidente Silvio Berlusconi. Se ai tempi la lungimiranza avesse avuto la meglio sui timori di fare entrare un Paese di religione musulmana, favorita da una procedura di adesione più soft, oggi forse la storia sarebbe diversa e non dovremmo guardare ad Ankara con diffidenza. Il caso dell’Ucraina può essere dunque una preziosa occasione per riflettere sulle “timidezze” del passato e pensare a modi innovativi per rilanciare il progetto della “casa comune” europea.