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Perché serve l’unità strategica tra Usa e Ue sui controlli alle esportazioni

Semiconduttori Microchip

Quella della limitazione delle esportazioni è un’arma cruciale nel contenimento della Cina. Ma in questo il fronte euroatlantico sembra essere tutt’altro che coeso. Secondo il Center for european policy analysis le discrepanze esistenti tra Washington e Bruxelles non solo inficiano il risultato generale del loro operato, ma offrono pericolosi spazi di manovra sfruttabili da Pechino

Che la limitazione delle esportazioni sia considerata una delle armi principali a disposizione dell’arsenale delle democrazie nella loro lotta contro la crescita dei regimi autoritari è oramai un fatto assodato, tanto a Washington come a Bruxelles. Dalla seconda metà degli anni ’40 a oggi questo tipo di strumento è stato utilizzato in modo sempre più esteso, con un picco registrato durante l’ultimo decennio. Tuttavia, vi sono ancora forti differenze nella regolamentazione e nell’utilizzo di questi mezzi tra Stati Uniti e Unione europea, differenze che non solo rischiano di inficiare il risultato complessivo, ma anche di provocare fratture interne al fronte euroatlantico. Un’analisi del Center for European Policy Analysis (Cepa) evidenzia queste criticità e individua alcune possibili soluzioni.

Quando nel 2015 Pechino ha annunciato il suo nuovo piano industriale denominato “Made in China 2025”, il governo americano ha subito percepito la portata della minaccia. Esso infatti si propone(va) l’obiettivo di portare la Repubblica Popolare a dominare le catene di fornitura globali in settori strategici come le “nuove tecnologie informatiche avanzate” e i “nuovi materiali”: una sfida aperta alla leadership americana nella dimensione dell’innovazione tecnologica.

In tutta risposta, l’amministrazione di Donald Trump prima e quella di Joe Biden poi hanno iniziato a concentrare energie e risorse politiche, economiche e giuridiche nella creazione di un efficace sistema id limitazione nell’accesso di Pechino alle più avanzate tecnologie made in Usa. La promulgazione dell’Export Control Reform Act nel 2018 affidava al Dipartimento di Stato il compito di identificare le tecnologie “emergenti e fondamentali” su cui imporre restrizioni all’esportazione in quanto “essenziali per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. L’anno successivo, l’inserimento di Huwaei all’interno dell’Entity List (un catalogo pubblico delle società e delle persone soggette a requisiti speciali per le licenze di esportazione) riduceva drasticamente l’accesso alle tecnologie delle compagnie americane da parte del colosso delle telecomunicazioni legato alle forze armate di Pechino.

Nel 2020, le limitazioni vennero estese a qualsiasi articolo prodotto all’estero che utilizzasse input statunitensi e che potesse essere “prodotto, acquistato o ordinato” da Huawei o dalle sue affiliate non statunitensi. Ancora, nel 2022 il Dipartimento del Commercio ha introdotto nuovi controlli sulle esportazioni volti a scoraggiare la capacità della Cina di produrre e acquistare semiconduttori e attrezzature per la loro produzione, mentre l’amministrazione Biden lanciava l’allarme sui pericoli delle tecnologie dualuse.

Questa particolare strategia è stata però causa di costernazione a livello domestico, per il timore che sul piano economico risultasse dannosa per gli americani quanto o più che per la Cina. In risposta, l’amministrazione Biden si è impegnata in un ribilanciamento, promuovendo la narrativa per cui sia sicurezza nazionale e benessere economico sarebbero stati perseguiti in egual misura, senza dare la priorità ad uno dei due. Ma al netto della retorica, sul piano pratico le questioni economiche (considerate comunque di primaria importanza) vengono spesso subordinate ai bisogni di sicurezza nazionale. Un approccio, questo, non condiviso dall’Europa.

Fino a pochi anni fa, all’interno dell’Unione europea le questioni di sicurezza nazionale (tra cui il controllo delle esportazioni) rappresentavano un’esclusiva degli Stati membri. Ma l’evolversi del contesto internazionale ha reso sempre più evidente l’importanza di un fronte comunitario per approcciare tematiche di carattere geopolitico. Nell’ultimo periodo ci sono state evoluzioni in questo senso: dal riposizionamento diplomatico nei confronti della Repubblica Popolare al nuovo regime sul controllo delle esportazioni promulgato nel 2021, fino allo strumento (ancora in via di sviluppo) pensato per rafforzare le capacità di “rappresaglia economica” a livello generale, l’Unione Europea si sta dotando di un arsenale molto simile a quello statunitense. Ma al netto di questo “riallineamento”, rimangono differenze sostanziali tra i due casi.

Soprattutto nel processo decisionale, che il carattere sovranazionale della struttura europea rende molto più lungo e complesso: l’approvazione di nuove norme richiede infatti il raggiungimento del consensus tra 27 Stati membri, ognuno dei quali, per questioni legate ai propri interessi interni, può rallentare o bloccare questo processo. Esempi di ciò sono l’interesse tedesco a non limitare troppo le relazioni economiche con la Cina, di cui la Germania è uno dei principali partner, o le rimostranze mosse da Italia, Francia e Paesi Bassi verso la strategia di de-risking della Commissione, che secondo loro interferirebbe con la capacità degli Stati membri di stabilire le proprie politiche di sicurezza nazionale.

Questa discrasia tra Europa e Stati uniti è stata anche causa di frizioni interne al blocco euroatlantico. Il regime di limitazioni tecnologiche promosso dal governo americano andava infatti a danneggiare la cooperazione tra industrie europee e statunitensi. Solo nel 2022, in seguito allo scoppio della guerra in Ucraina, il governo americano ha offerto esenzioni da queste norme agli alleati europei che hanno imposto sanzioni contro la Russia e la Bielorussia, esenzioni che hanno incoraggiato le imprese europee a continuare a utilizzare i fattori produttivi statunitensi o a evitare di passare a fornitori non statunitensi. In altri casi, come in quello relativo alla società olandese Asml, il governo americano ha preferito utilizzare l’utilizzo del bastone rispetto a quello della carota, esercitando pressioni tali da costringere il governo di Amsterdam ad accettare le limitazioni nell’esportazione di certi prodotti verso la Cina.

L’esistenza di tali crepe rappresenta una vulnerabilità importante, che potrebbe essere sfruttata da Pechino per contrastare il regime di limitazione sulle esportazioni. La Repubblica Popolare ha assunto un atteggiamento tutt’altro che passivo alle politiche occidentali nei suoi confronti, cercando di sviluppare una supply chain tecnologica “west-free”. E non esiterà a sfruttare ogni tipo di varco nella muraglia difensiva Usa-Ue per raggiungere il grado di autosufficienza che vanificherebbe tutti gli sforzi e i sacrifici occidentali degli ultimi anni.

Per evitare il verificarsi di questo scenario, è fondamentale che Bruxelles e Washington reagiscano in modo compatto ed affrontino subito le criticità esistenti. Lo sviluppo di un quadro comune europeo per il controllo delle esportazioni (anche attraverso l’istituzione di un’agenzia specifica), il maggior sfruttamento di piattaforme già esistenti come il Trade and Technlogy Council per incrementare la cooperazione tra Usa e Ue nel settore specifico, il contrasto agli effetti economici collaterali interni al blocco euroatlantico del regime sanzionatorio, e il coinvolgimento di altri attori democratici (Taiwan, Corea del Sud, Giappone) all’interno della politica comune di controllo sulle esportazioni rappresentano tutti passi importanti per incrementare l’efficacia di questa strategia tanto sul breve che su lungo periodo.



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