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Il caso Vannacci tra libertà di espressione ed etica pubblica. L’opinione di Mayer

Il vero punto del contendere, nel caso Vannacci, non attiene ai contenuti del libro, bensì a un altro aspetto: la domanda centrale da porsi è come conciliare il principio della libertà di espressione con i principi di responsabilità propri dell’etica pubblica

Il “caso Vannacci” ha innescato un paradossale gioco delle parti  in cui i difensori della tradizione sembrano ergersi a  libertari e viceversa gli innovatori si presentano come illiberali,  almeno sulla carta. In realtà il vero punto del contendere non attiene ai contenuti del libro su cui si cerca  di concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica. La domanda centrale da porsi è la seguente: come conciliare il principio della libertà di espressione con i principi di responsabilità propri dell’etica pubblica.

Un generale in carriera che – per fare un solo esempio –  si erge a “censore” di un programma televisivo di Alba Parrietti solleva inevitabilmente qualche interrogativo. Con la pubblicazione del suo libro, il generale Roberto Vannacci è uscito dall’anonimato. Qualora  ne avesse voglia può diventare un personaggio celebre senza bisogno di partecipare all’ isola dei famosi.  Ma i fan del generale Vannacci dovrebbero sapere che libertà e responsabilità pubblica non sempre vanno d’accordo.

E il generale Vannacci non dovrebbe ignorare il riverbero negativo che (quanto meno in teoria) le posizioni  del suo libro potrebbero suscitare sul prestigio degli incursori del Reggimento del Col Moschin o dei paracadutisti della Brigata Folgore, settori  dell’esercito italiano conosciuti  in tutto il mondo per le loro speciali  capacità.

La libertà di espressione di una persona e’ un principio di carattere universale che trova peraltro la sua espressione concreta soltanto nelle parti del mondo dove i cittadini hanno il privilegio di vivere in Stati di diritto. C’è un libro del 1979 che forse meglio di altri sintetizza la libertà di espressione e nel contempo sfida apertamente il “politicamente corretto” . Mi riferisco al volume  “Defending my Enemy” di Aryeh Neier.

Nel libro Neier spiega i motivi perché in qualità di direttore della celeberrima Associazione delle Libertà Civili (Aclu) decise di difendere il diritto di manifestare di un partito neo-nazista americano in una cittadina degli Stati Uniti caratterizzata dalla presenza di una vasta comunità ebraica, tra l’ altro duramente colpita dalla Shoah.

Alla fine la manifestazione prevista non si tenne, ma si apri una animata discussione all’ interno e all’ esterno dell’associazione  Per protestare contro la  scelta di Neier circa 30.000 iscritti lasciarono  l’Aclu. Tuttavia –  per quanto impopolari – le posizioni (in difesa del diritto di manifestare di una minoranza per quanto estremista) espresse da Neier e da Aclu furono condivise dalla Corte Suprema dell’Illinois perché in linea con la Costituzione degli Stati Uniti.

Il principio di responsabilità nell’esercizio dell’etica pubblica  si muove – viceversa –  lungo una traiettoria  diversa. In alcune circostanze Il principio di  responsabilità  può,  infatti,  limitare i margini di libertà di chi opera al servizio dei pubblici poteri. Non si tratta di negare la distinzione tra la sfera di azione nello svolgimento di incarichi pubblici e la dimensione del “privato cittadino” . Ma e’  ipocrita negare che si tratta di una distinzione fluida specie quando un servitore dello Stato si schiera apertamente su temi assai controversi e di grande  attualità politica.

È persino ovvio che i servitori dello Stato  non hanno  gli stessi doveri (né gli stessi diritti) di un comune cittadino. Si pensi soltanto ai vincoli a cui debbano attenersi i pubblici ufficiali  o gli  incaricati di pubblico servizio. Non a caso codici deontologici e disposizioni disciplinari prevedono che nelle sue esternazioni e nei suoi comportamenti “fuori dal servizio” il funzionario pubblico sia tenuto a non nuocere all’immagine di imparzialità, al prestigio e all’ immagine dell’amministrazione di appartenenza.

Sul  caso specifico saranno  gli organi competenti a valutare. Ma a prescindere dagli esiti  dell’indagine disciplinare è innegabile che il clamore suscitato dal libro di Vannacci derivi dal fatto che l’autore sia un generale dell’esercito. Lo stesso sarebbe  ovviamente accaduto se l’autore fosse stato un Prefetto, un Ambasciatore, un dirigente o funzionario delle Stato.

Qui non c’è spazio per accennare al tema weberiano  dell’etica della responsabilità, ma questo dovrebbe essere il cuore di un dibattito politicamente serio. La libertà di espressione non trova forse un limite nel “senso dello Stato” ? Il generale Vannacci per primo sa benissimo che è  il suo ruolo di alto ufficiale a far notizia. La domanda da porsi è  allora la seguente. Fino a che punto Vannacci ha il diritto di ignorare il potenziale riflesso negativo delle sue opinioni personali sul prestigio delle istituzioni militari?

Le disposizioni legislative e la prassi  prevedono che i pubblici dipendenti debbano  rispettare i loro doveri di imparzialità durante e fuori delle attività di servizio; in caso contrario possono incorrere in azioni disciplinari o amministrative.

È per questo che il ministro Crosetto non poteva  ignorare il caso e ha fatto bene a pretendere un rigoroso accertamento dei fatti. In verità si tratterebbe  un dovere di ogni Ministro, Matteo Salvini compreso. Il leader della Lega, invece, nella speranza di  intercettare qualche voto si è subito schierato dalla parte di Roberto Vannacci.

 

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