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Cina, la strada stretta di Tajani per uscire dalla Via della Seta. Parla Fardella

Chi di BRI ferisce… La missione in Cina di Tajani, spiegata da Fardella

A inizio settembre il ministro degli Esteri italiano dovrà preparare il terreno per l’uscita dell’Italia dalla Via della Seta. Enrico Fardella, professore all’Università degli Studi di Napoli “l’Orientale” e direttore di ChinaMed.it, spiega cosa significa per il progetto di punta di Xi e traccia gli scenari per una transizione morbida

Il ministro degli Esteri Antonio Tajani sarà a Pechino il 4 settembre per una serie di contatti diplomatici di alto livello. È il primo viaggio del genere da quando il suo predecessore Luigi Di Maio si recò a Shanghai nel 2019 – l’anno in cui il governo gialloverde guidato da Giuseppe Conte siglò il memorandum sulla Via della Seta con il presidente cinese Xi Jinping. Oggi, con la guerra russa in Ucraina e la rivalità Usa-Cina sullo sfondo, a Tajani va il delicatissimo compito di preparare il terreno per la decisione italiana di non rinnovarlo.

Assieme alla visita annunciata dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, durante la sua visita a Washington (e non a caso), è il memorandum attorno a cui ruota il viaggio di Tajani. L’accordo è scritto in modo da auto-rinnovarsi a inizio 2024, a meno che una delle parti non si ritiri entro dicembre. Una decisione data ormai per certa, come avrebbe confermato la stessa premier ai parlamentari statunitensi in visita a Roma. Ora si tratta di evitare di trasformare l’inevitabile risentimento di Pechino (la cui propaganda si sta dimostrando particolarmente sensibile a riguardo) in un contraccolpo economico.

La decisione non dovrebbe essere inaspettata per Pechino, spiega Enrico Fardella, professore all’Università di Napoli “l’Orientale” e direttore di ChinaMed.it. Il governo cinese è pronto allo scetticismo dell’Italia sul rinnovo del memorandum fin dall’insediamento del governo Meloni, ha spiegato a Formiche.net, sottolineando che la premier “aveva già chiarito il suo pensiero in merito fin dal primo giorno, come anche altri ministeri chiave. La guerra in Ucraina, la posizione della Cina in merito e la crescente tensione tra Pechino e Washington hanno consolidato questa tendenza”.

Lo stesso ministro Tajani segnala da mesi la necessità di un cambio di passo e ha più volte sottolineato che esorterà le autorità cinesi a “correggere” la loro posizione, affinché facciano maggior pressione sul Presidente russo Vladimir Putin per arrivare a una soluzione pacifica del conflitto. In sostanza, sintetizza Fardella, la missione di Tajani è “un’occasione per sottolineare la posizione italiana”, dove si offriranno anche alcuni incentivi per controbilanciare l’effetto di questa decisione.

L’uscita italiana dalla Via della Seta rimane comunque un tasto molto dolente per Pechino. “L’apparenza conta, soprattutto per la Cina”, ha osservato l’esperto. “Se l’Italia non rinnoverà il memorandum manderà inevitabilmente un messaggio di sfiducia verso le iniziative globali della Cina, segnalando un’inversione della tendenza al rialzo degli anni pre-Covid (2015-2019), quando l’ascesa del progetto sembrava inarrestabile.” Il declino delle prospettive economiche cinesi “potrebbe certamente diffondere una percezione più acuta e realistica riguardo alla Via della Seta, soprattutto nel Sud globale, le cui aspettative idealistiche nei confronti del progetto talvolta sono andate anche oltre le più colorite promesse della propaganda cinese”.

In tutto questo, prosegue Fardella, l’Italia non ha alcun interesse a danneggiare le sue relazioni con Pechino. Quindi “non sbatterà la porta e farà di tutto per negoziare una via d’uscita morbida che non porti Pechino a perdere la faccia, e possa anzi aprire una fase più stabile e gestibile delle relazioni bilaterali”. Chi a Pechino invoca ritorsioni non fa l’interesse del Paese ma il proprio, perché “cerca semplicemente di migliorare la propria visibilità all’interno del sistema”. Una valutazione obiettiva della situazione, invece, vorrebbe che Pechino gestisca la decisione dell’Italia in modo congiunto e fluido con Roma, per abbassare l’impatto di questo passaggio e massimizzare l’esito di un nuovo accordo. In vista della questione taiwanese e delle elezioni statunitensi nel 2024, “una mossa del genere potrebbe comportare interessanti margini di manovra e incentivi per entrambe le parti”.

Gli accordi economici saranno sufficienti a placare Pechino? “Non credo. La Via della Seta, soprattutto dopo il XIX Congresso del Partito Comunista Cinese del 2017, ha acquisito una forte valenza politica (e strategica) per Pechino. Il Memorandum d’intesa dell’Italia – le cui motivazioni erano per lo più guidate dalla politica interna, come la competizione per le elezioni europee del 2019 tra il Movimento Cinque Stelle e la Lega – è stato inquadrato da Pechino come un riconoscimento di questa logica”. Dunque, secondo Fardella, “cambiare rotta significherebbe inviare un segnale di sfiducia all’iniziativa-faro del presidente Xi Jinping e all’aspirazione cinese di apportare una revisione della governance globale. Una decisione del tutto legittima per il nuovo governo italiano, ma con implicazioni politiche che vanno oltre la sfera economica”.

La strada che porti a una soluzione non turbolenta è strettissima. L’Italia “cercherà di enfatizzare la mancanza di ritorni economici del memorandum. Ma tutto questo può ancora apparire come un ‘espediente’ per giustificare la decisione italiana, e getta una luce negativa sia sulla Via della Seta che sul suo artefice, Xi Jinping, ha concluso il professore. “Forse sarebbe più utile sottolineare il funzionamento delle democrazie e sottolineare che l’accordo del 2019 non è un trattato ma una semplice scelta, carica di implicazioni politiche, fatta da un altro governo. Una scelta che il governo del premier Meloni non è disposto a ereditare, soprattutto vista la posizione della Cina sull’Ucraina”.


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