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Tassi e capitale, la (doppia) battaglia di Jamie Dimon

L’economia americana continua a tirare, ma per gli istituti la situazione è diversa. L’impetuosa stretta monetaria, non ancora giunta al termine, rischia di far esplodere le sofferenze, oltre a tagliare le gambe ai consumi. E le nuove regole sul rafforzamento dei patrimoni bancari, secondo il numero uno di Jp Morgan, non sono la soluzione

Per Jamie Dimon deve essere un periodo di particolare effervescenza. Il banchiere americano, timoniere di Jp Morgan e simbolo della grande finanza americana, quella pesante che muove le fila di Wall Street, sta portando avanti una doppia causa. Una contro la Federal Reserve, l’altra contro le autorità di regolamentazione statunitensi. Perché se è vero che l’economia americana è tornata a tirare (nel secondo trimestre il Pil è cresciuto del 2,1%, sotto le attese ma sempre a un ritmo soddisfacente) e a generare posti di lavoro, è anche vero che le banche vivono una fase quanto meno delicata.

Questo essenzialmente per un motivo: un rialzo veloce e impetuoso dei tassi da parte della Banca centrale americana che nel giro di un anno e mezzo ha portato il costo del denaro da zero al 5,2%. Ed è proprio su questo che il numero uno di Jp Morgan gioca la sua partita. Tanto per cominciare, memori dei disastrosi crack di Svb e First Republic dello scorso marzo, i regolatori statunitensi hanno imposto ai grandi gruppi bancari, il rafforzamento del capitale. Consapevoli che i due istituti poc’anzi menzionati sono saltati proprio per non aver retto all’urto dei tassi, dal momento che i portafogli sono stati svalutati sull’onda della stretta monetaria.

Per evitare nuovi terremoti, la Federal deposit Insurance, in tandem con la Fed, ha imposto nuove regole sui patrimoni delle banche. Qualcosa che ai grandi manager, Dimon in testa, non piace nemmeno un po’ perché chiamerebbe gli azionisti a mettere altri soldi negli istituti e non è detto che questo accada. Insomma, il rischio è una fuga degli investitori. Fin qui il primo problema. Poi c’è quello più direttamente legato ai tassi, ovvero l’aumento delle sofferenze. Se aumenta il costo del denaro, è più difficile rimborsare un mutuo, un finanziamento. E il credito si incaglia, svalutandosi e tramutandosi in perdita.

Non è un caso che nel solo secondo trimestre del 2023 le banche americane abbiano contabilizzato 19 miliardi di dollari di perdite, proprio connesse alla perdita di valore dei crediti. Per tutti questi motivi, Dimon è tornato a mettere in guardia la Fed e lo stesso governo americano (la Federal Reserve è però un organismo sostanzialmente indipendente): Va bene il tassi al 5%, anche qualcosa di più. Ma non oltre.  “Non sono sicuro che il mondo sia preparato per tassi di interesse al 7%”, ha profetizzato Dimon in un’intervista al Times of India nell’ambito di una visita nel Paese asiatico.

“Passare da zero al 2% non ha quasi rappresentato alcun aumento, passare dallo zero al 5% ha preso qualcuno alla sprovvista ma nessuno considerava il 5% come fuori dal campo delle possibilità. Ma portare i tassi al 7% negli Usa rappresenterebbe lo scenario peggiore in caso di stagflazione (quando i prezzi aumentano ma il Pil rimane fermo, ndr). Se ci saranno volumi più bassi e tassi più alti, questo comporterà uno stress nel sistema. Invitiamo i nostri clienti a essere preparati per quel tipo di stress”. Fed avvisata.

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