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Non abbassiamo la guardia sulle stazioni cinesi. L’audizione di Harth al Congresso Usa

Laura Harth, campaign director di Safeguard Defenders, è stata ascoltata dalla commissione Cina del Congresso degli Stati Uniti. Ecco il suo intervento

(…) La maggior parte delle persone ci conoscerà per il rapporto pubblicato esattamente un anno fa, che denunciava la cooperazione formale tra le autorità di pubblica sicurezza cinesi e i gruppi legati al Fronte unito sparsi per il mondo nella creazione e nella gestione dei cosiddetti “centri di servizio di polizia all’estero”.

Contrariamente a quanto affermato dalle autorità e dalla propaganda della Repubblica popolare cinese, queste stazioni non solo violavano apertamente la Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari. Le fonti aperte delle autorità cinesi e dei media dello partito/stato collegano queste stazioni direttamente alle operazioni di “persuasione al ritorno”, con tanto di prove video di un’operazione di questo tipo in Spagna.

Come spesso accade quando si scopre l’ennesima storia di interferenze cinesi all’estero (…), questi rapporti hanno rappresentato una specie di brusco risveglio per molti governi democratici precedentemente riluttanti a impegnarsi sulla questione della repressione transnazionale.

Sebbene le “stazioni di polizia all’estero” abbiano sicuramente dato il via a una serie crescente di discussioni, è chiaro che queste non sono che la punta dell’iceberg di ciò che i dissidenti vivono da tempo e che Freedom House definisce giustamente come “la campagna di repressione transnazionale più sofisticata, completa e di vasta portata al mondo”.

Nel quadro di questa attività, concentriamo i nostri sforzi di azione diretta e di documentazione sul contrasto a una delle sue declinazioni più estreme: i rimpatri involontari. Sebbene non sia una novità, la scala con cui le autorità della Repubblica popolare cinese costringono le persone a tornare in Cina e a subire un processo è esplosa nel corso dell’ultimo decennio, con numeri ufficiali – ma parziali – diffusi ogni anno che parlano di oltre 10.000 rimpatri da più di 120 Paesi tra il 2014 e l’ottobre 2022. Presto pubblicheremo ulteriori prove di queste operazioni in tutto il mondo.

I metodi, spesso clandestini, per questi rimpatri sono stati stabiliti dalla Commissione centrale per l’ispezione della disciplina del Partito comunista cinese in un’interpretazione giuridica scritta della Legge nazionale sulla sorveglianza del 2018, che ha ampliato enormemente il raggio d’azione di questo organo non giudiziario: “estradizione”, “rimpatrio”, “procedimento giudiziario fuori sede”, “persuasione”, “adescamento e cattura” e persino “rapimento”.

Il cosiddetto metodo della “persuasione al rimpatrio” è quello utilizzato più frequentemente. Minacce e vessazioni – o peggio – nei confronti dei familiari in patria o minacce e vessazioni rivolte direttamente a persone all’estero da parte di agenti clandestini della Repubblica popolare cinese, persone legate alle sue ambasciate o ai suoi consolati, investigatori privati e società di sicurezza, privati cooptati, nazionalisti fanatici o addirittura le stesse vittime: il Partito comunista cinese ha messo in atto un vero e proprio sforzo dell’intera società per esercitare il controllo sulle comunità della diaspora in tutto il mondo e mettere a tacere il dissenso.

Questi sforzi minano chiaramente le libertà più fondamentali delle comunità prese di mira, violano gravemente i diritti e il diritto al giusto processo delle persone costrette a tornare e costituiscono una grave violazione della sovranità territoriale e giurisdizionale di altre nazioni.

Il clima di sospetto e la paura diffusa isolano ulteriormente le comunità e gli individui presi di mira dal loro ambiente. Possono anche esporre a responsabilità penale gli individui che sono stati cooptati o costretti a eseguire gli ordini del Partito comunista cinese.

Come è stato spesso detto, per contrastare efficacemente una simile operazione globale, le democrazie devono rispondere con un approccio analogo a quello “whole of government”, che riconosca la repressione transnazionale per la minaccia interna che rappresenta, una minaccia inestricabilmente legata alle operazioni di influenza del Partito comunista cinese.

Parlando in base all’esperienza europea, siamo solo all’inizio di questo percorso e avremo bisogno di continui sforzi congiunti per superare la fase della timida condanna e passare a un’azione di contrasto transnazionale efficace e coordinata, all’altezza degli sforzi del Partito comunista cinese.

Lavorare su definizioni comuni, condivisione di informazioni e buone pratiche è un passo essenziale in questa direzione.

A nostro avviso, è altrettanto fondamentale porre fine alla legittimazione delle pratiche illegali della Repubblica popolare cinese attraverso accordi di cooperazione giudiziaria e di polizia, a livello bilaterale ma anche multilaterale. Non è un caso che la Repubblica popolare cinese abbia accelerato la firma e la ratifica di tali accordi nello stesso periodo in cui sono esplose le operazioni di rimpatrio involontario.

Alcuni ricorderanno l’esempio delle pattuglie di polizia congiunte che sembravano – quanto meno – favorire la sperimentazione di stazioni di polizia all’estero in Italia, cosa che le autorità italiane hanno poi riconosciuto come imprudente. Ma gli esempi non finiscono qui.

In particolare, vorrei cogliere l’occasione per mettere in discussione la legittimità del protocollo d’intesa tra l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine e la Commissione centrale per l’ispezione della disciplina del Partito comunista cinese – e la sua controparte statale, la Commissione nazionale per la sorveglianza – come punto di riferimento cinese per tutte le attività previste dalla Convenzione contro la corruzione.

Sebbene la propaganda della Repubblica popolare cinese definisca questo tipo di accordi come una “dimostrazione della fiducia della comunità internazionale nel suo sistema giudiziario”, essi contribuiscono direttamente ad aumentare il senso di paura all’interno delle comunità interessate e a sovvertire gravemente l’ordine internazionale basato sulle regole.

Porre fine a questa legittimazione è un elemento cruciale per ricostruire la fiducia con le comunità interessate, fondamentale per comprendere le minacce e gli attori emergenti. Personalmente, credo che il più grande complimento che abbiamo ricevuto per il nostro lavoro sia quello delle vittime in tutta Europa, che affermano di aver finalmente trovato un pubblico interessato alle loro storie e alle loro – tristi – esperienze. A loro voglio dire: abbiamo bisogno di altre storie. Le autorità hanno bisogno di altre storie.

Gli Stati Uniti e l’Australia hanno già istituito apposite linee telefoniche multilingue esemplari per denunciare gli sforzi di repressione transnazionale, anche in forma anonima. Per incoraggiare queste buone pratiche anche altrove, Safeguard Defenders ha pubblicato oggi una guida pilota in più lingue con i canali di segnalazione in una serie di Paesi, che continueremo ad aggiornare e, auspicabilmente, a far crescere con analoghe linee telefoniche dedicate.

Pur comprendendo il peso che le vittime devono sopportare per farsi avanti, nonché l’occasionale sfiducia e/o frustrazione, è giunto il momento di farsi avanti e, facendosi avanti, di contribuire direttamente all’impegno democratico di tutta la società per contrastare la repressione transnazionale. Per favore, fatelo.



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