L’ex Bce dovrà redigere un rapporto e definire le linee di indirizzo per rafforzare la competitività dell’industria europea, in una fase tutt’altro che semplice per l’economia mondiale. Ciliegina sulla torta, le parole che hanno accompagnato l’investitura a favore di “una delle più grandi menti economiche europee”. Nella sede aulica del Parlamento europeo, nel corso del più istituzionale discorso del presidente sui destini dell’Unione…
L’incarico che Ursula von der Leyen ha dato a Mario Draghi, è stato accolto con piacere dalla stragrande maggioranza degli italiani. Ed, in una certa misura, almeno a giudicare dalla stampa internazionale, dalle altre capitali europee.
Com’è noto l’ex Bce dovrà redigere un rapporto e definire le linee di indirizzo per rafforzare la competitività dell’industria europea, in una fase tutt’altro che semplice per l’economia mondiale. Ciliegina sulla torta, le parole che hanno accompagnato l’investitura a favore di “una delle più grandi menti economiche europee”. Nella sede aulica del Parlamento europeo, nel corso del più istituzionale discorso del presidente sui destini dell’Unione.
Verdi di bile i suoi tradizionali detrattori. A partire da Il Fatto quotidiano che se la prende con “il grande godimento delle vedove draghiate sparse in Italia”. Non dimentichi ovviamente del disprezzo con cui avevano apostrofato – il “governo dei migliori” – durante tutta la seconda parte della passata legislatura. Quando Giuseppe Conte, dopo aver tentato di dare (in parte riuscendoci) un colpo mortale alle finanze pubbliche italiane, era stato costretto ad uscire di scena.
Pochi entusiasmi anche dalle parti di Palazzo Madama, com’era emerso chiaramente dalle pagine de Il Corriere della sera di qualche giorno fa. Quell’anatema contro gli “anni di espansione monetaria senza precedenti” i “tassi di interesse a zero o negativi” i “disavanzi pubblici in continuo aumento”. Tutte decisioni destinate a smontare il castello dell’austerity, di chi più realista del re vedeva nello schuld (debito), la colpa (sempre schuld in tedesco), da espiare.
Fin qui semplici rivalità tra personaggi più o meno altolocati. Sul piano politico, invece, il gioco delle von der Leyen è apparso più sofisticato. Il traguardo è quello delle prossime elezioni europee. Pochi mesi ormai alla scadenza. Per movimentare l’elettorato non basta più la semplice routine, ma è necessario offrire un piatto più sostanzioso. I popolari tedeschi vogliono vincere. Si spiega così la decisione di chiudere le frontiere ai nuovi migranti. In questa non facile partita, vogliono rimanere l’architrave del futuro equilibrio europeo. Approfittando da un lato del minor fascino dei socialisti; dall’altro delle fratture emerse nello schieramento di centro destra: liberali e conservatori vs. l’estrema destra, rappresentata dalla Lega, Marina Le Pen ed AfD.
Solo in quest’eventualità, Ursula von der Leyen potrà scegliere. Rimanere presidente della Commissione europea oppure divenire, come pure si vocifera, il nuovo Segretario generale della Nato. Al di là di ogni altra considerazione, potrà rimanere in gioco solo nel caso di un successo elettorale del suo partito.
La scelta di Mario Draghi le ha consentito, pertanto, di prendere diversi piccioni. C’è, innanzitutto, l’indiscutibile statura del personaggio. Di chi, durante la sua presidenza alla Bce riuscì, al tempo stesso, a tagliare le unghie alla Bundesbank, ottenendo tuttavia il placet di Angela Merkel. Quindi la dimostrazione di essere soprattutto una leader europea. Refrattaria ad ogni richiamo della propria foresta.
Senza considerare, infine, una forte sintonia con Washington. Al di là dell’inquilino, che occupa pro tempore la Casa Bianca, la preoccupazione dell’establishment americano è palpabile. C’è Putin che sembra deciso a giocare duro: fin dove è difficile prevedere. La Cina di Xi Jinping è una sfinge indecifrabile. Opera su tavoli diversi, ma di fatto mantiene con la Russia un rapporto privilegiato. Almeno fin quando sarà necessario. C’è poi il Sud Globale che scalpita. Medie potenze che cercano spazi vitali, nel Mediterraneo, in Africa, nel Pacifico. Washington non può occuparsi di tutto, specie in un momento in cui alcuni interessi strategici, come il petrolio del Medio Oriente, non sono più tali.
L’Europa deve quindi fare la sua parte. Anche per non prestare il fianco alle critiche rivolte contro un’apparente vocazione imperiale del suo più stretto alleato. Da questo punto di vista, l’ultimo G20 ha dimostrato le potenzialità di un multilateralismo che non sia solo elemento di propaganda, su cui costruire un’egemonia rovesciata. Il successo ottenuto nel prospettare la cosiddetta “via del cotone” in alternativa a quella della seta, destinata ad interessare India, Arabia Saudita e Ue, ne è una chiara indicazione. Tant’è che i cinesi non hanno gradito.
Da questo punto di vista le idee di Mario Draghi, sono più che chiare. Avendole ripetute durante il suo intervento a Cambridge, di qualche mese fa, e poi nello scritto per l’Economist, la scorsa settimana. Parole pesanti come pietre: “Le strategie – aveva detto – che hanno garantito in passato la prosperità e la sicurezza dell’Europa – fare affidamento sull’America per la sicurezza, sulla Cina per le esportazioni e sulla Russia per l’energia – sono diventate insufficienti, incerte o inaccettabili”. Destinate a trascinare con se le vecchie regole del “Patto di stabilità e crescita” la cui semplice riproposizione – contrariamente a quanto sostenuto da Mario Monti – sarebbe la “scelta peggiore”. Giudizio destinato, in qualche modo, ad investire lo stesso Paolo Gentiloni, forse troppo tiepido su un argomento (le regole fiscali) che richiede livelli di conoscenze fin troppo elevate.
Attenti, tuttavia, ad attribuire a Mario Draghi una semplice vocazione di tipo keynesiano. La sua analisi è più sofisticata. Si basa, infatti, su una netta distinzione dei ruoli. Vi sono compiti come la difesa, e di conseguenza la politica estera, il green, le politiche volte a ricostruire le basi dello sviluppo, e via dicendo che appartengono all’Europa in quanto tale. Richiedono una forte centralizzazione del potere decisionale, in un’ottica sempre più di tipo federale. E vi sono poi le politiche nazionali la cui responsabilità è esclusiva competenza degli organi di autogoverno. Alle prime non può che corrispondere un finanziamento sovranazionale. Per le seconde devono invece valere i criteri di massima prudenza. Un disegno istituzionale complesso, come si vede. Riflesso di quei grandi cambiamenti negli equilibri geopolitici mondiali che è necessario gestire con politiche adeguate.