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Chip, niente fondi pubblici alle aziende cinesi? Il governo ci pensa

La Lega aveva presentato un emendamento per escludere le aziende “controllate o che collaborano con imprese controllate da entità di Paesi che non condividono i princìpi dell’Ue” dal credito di imposta maggiorato per la ricerca e lo sviluppo nel settore dei semiconduttori. Dopo il parere contrario dell’esecutivo, la proposta è stata trasformata in ordine del giorno, approvato ma con riformulazione dell’impegno a valutare la possibilità

Il governo aveva dato parere contrario a un emendamento della Lega al decreto legge Asset, a cui il Senato ha dato il via libera con voto di fiducia ieri, volto a impedire che aziende cinesi e russe possano accaparrarsi i fondi nazionali per i chip. Dopo la bocciatura, l’emendamento era stato trasformato in un ordine del giorno. Che infine è stato fatto passare come riformulato, con la frase di rito dell’impegno del governo “a valutare la possibilità di…”, un po’ per aprire il dibattito e un po’ per non dire no a una proposta di un partito della maggioranza, ma senza un impegno vincolante dell’Aula.

Un passo indietro. A inizio agosto il Consiglio dei ministri ha varato il decreto legge Asset anticipando alcune misure urgenti del più vasto Piano nazionale per la microelettronica che verrà presentato nelle prossime settimane da Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy. In particolare, il decreto destina al settore circa 700 milioni di euro. La scorsa settimana cinque senatori della Lega (Tilde Minasi, Manfredi Potenti, Antonino Germanà, Mara Bizzotto, Gianluca Cantalamessa) hanno presentato un emendamento che prevede che siano “in ogni caso escluse dal credito di imposta le imprese controllate o che collaborano con imprese controllate da entità di Paesi che non condividono i princìpi dell’Ue”. Nessun limite, invece, per le aziende americane. L’emendamento era stato considerato ammissibile dalla presidenza delle commissioni assegnatarie.

La logica della proposta leghista è chiara: come spiegato su queste pagine, sarebbe, in effetti, un controsenso dare vita a un Piano nazionale e stanziare fondi nazionali per ridurre la dipendenza strategica da Paesi che possono utilizzarla come arma e poi destinare quegli stessi fondi ad aziende legate a quegli stessi Paesi.

Alla fine il compromesso è stato raggiunto con l’ordine del giorno che impegna il governo “a valutare la possibilità di escludere dal beneficio quelle imprese che, pur avendo una stabile organizzazione in Italia, siano direttamente parte, o controllate da entità di Paesi terzi che non condividono i principi dell’Ue”.

La questione riguarda in particolare la Cina, visto che non esistono imprese russe di rilievo nella catena del valore che potrebbero accedervi, né in Italia né altrove. E infatti anche i provvedimenti più recenti degli Stati Uniti quando parlano di “foreign entity of concern” scrivono in modo esplicito nella definizione “Repubblica popolare cinese, incluse [le regione di] Macao e Hong Kong”.

Tra le aziende potenzialmente interessate ai fondi ci sono due cinesi protagoniste delle telecomunicazioni, in particolare del 5G, infrastrutture da cui la Commissione europea ne ha suggerito recentemente l’esclusione a tutti gli Stati membri. La prima è Zte, azienda la cui maggioranza delle quote è controllata dal governo di Pechino, accusata di legami con l’Esercito di liberazione popolare, quotata in Borsa sia a Hong Kong sia a Shenzhen ma bandita dagli Stati Uniti e da altri governi occidentali. La seconda è Huawei, anch’essa bandita dagli Stati Uniti e da altri governi occidentali per ragioni di sicurezza nazionale. Il colosso è è partner del Distretto di microelettronica di Pavia, città destinata a ospitare il Centro italiano per il design dei circuiti integrati a semiconduttore. Huawei ha recentemente lanciato sul mercato (ma non presentato durante il maxi-evento di lunedì) un nuovo smartphone diventato il simbolo della rivalità tecnologica tra Cina e Stati Uniti in quanto realizzato con un chip messo a punto nonostante le restrizioni sulle esportazioni imposte da Washington, che accusa l’azienda di spionaggio per conto di Pechino.

Tuttavia, a guidare gli investimenti di Huawei non è affatto una disponibilità di crediti o di fisco agevolato da parte dei governi occidentali visto che il colosso cinese non ha questo tipo di difficoltà. A interessare è la penetrazione di mercato e il rapporto con le aziende di cui è fornitore. Per questo, Huawei cerca piuttosto visibilità e riconoscibilità politica. Al contrario, possono esserci altre aziende o attori cinesi, che hanno degli asset meno pregiati, a cui può interessare il credito per gli investimenti.


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