Secondo la società di analisi americana, è in atto una reale fase di de-risking che sta producendo un alleggerimento degli investimenti in Cina e di cui l’India sta godendo benefici, diventando oggetto di nuovi investimenti greenfield. Ma il report di Rhodium avverte che le economie restano interconnesse e la quota globale di mercato cinese non calerà presto
Secondo un rapporto di Rhodium Group, le aziende statunitensi ed europee stanno riorientando i loro investimenti dalla Cina verso i mercati emergenti, con l’India in testa nell’attrarre capitali stranieri. Questo spostamento degli investimenti mette in evidenza le preoccupazioni degli investitori stranieri riguardo al contesto commerciale cinese, alla ripresa economica e ai fattori politici.
Il rapporto prodotto dalla società basata al Columbus Circle, nota per essere tra i riferimenti globali dell’analisi economica combinata alle dinamiche della politica internazionale, evidenzia che il valore degli investimenti greenfield annunciati da Stati Uniti ed Europa in India è aumentato di circa 65 miliardi di dollari, pari al 400%, dal 2021 al 2022. Al contrario, gli investimenti in Cina sono scesi a meno di 20 miliardi di dollari nell’anno precedente, rispetto al picco di 120 miliardi del 2018.
Gli investimenti greenfield rappresentano il tipo di impegno aziendale in cui un’impresa istituisce una nuova filiale all’estero investendo in strutture completamente nuove, come uffici, fabbriche, alloggi per il personale e centri di distribuzione. Questa denominazione trae origine dall’idea che un’azienda che avvia un nuovo progetto parta da zero, proprio come un terreno verde iniziale. Pertanto, sono una modalità di investimento diretto estero di primaria importanza, per questo oggetto di valutazione.
Rhodium osserva che la diversificazione è già in atto, ma riconosce che il raggiungimento degli obiettivi delle politiche di “de-risking” nelle economie avanzate richiederà anni a causa del ruolo centrale della Cina nelle catene di approvvigionamento globali. Il de-risking è il processo con cui Stati Uniti e Unione Europea (e non solo) intendono diminuire la loro dipendenza da un solo Paese (leggere: dalla Cina) per evitare contraccolpi frutto di eccessive esposizioni.
Il concetto, che ha ormai obliterato quello di de-coupling (perché un reale disaccoppiamento è impossibile per il livello delle interconnessioni delle economie globalizzate) è mutuato dalla necessità di reazione a cui l’Ue ha dovuto far fronte quando ha applicato misure sanzionatorie contro la Russia dopo l’invasione ucraina. In quel caso molti Paesi europei erano dipendenti da materie prima energetiche russe e hanno dovuto ricorrere a forme di differenziazione in via emergenziale.
Il de-risking teorizzato serve a prepararsi (ed evitare isterie), disponendosi in anticipo per esempio per sviare dalla dipendenza dalla Cina per l’approvvigionamento di materie prime necessarie per la transizione energetica (operazione che rischia di essere comunque tardiva, visto che Pechino si è già portata molto avanti in certi settori come quello delle batterie, dove ha intasato il mercato con una sovrapproduzione). Oggi il Parlamento europeo ha varato una misura specifica per il controllo degli approvvigionamenti su questi materiali.
In sostanza, le aziende occidentali stanno investendo sempre di più in mercati diversi da quello cinese per diversificare le loro fonti di beni assemblati e di materie prime critiche, come i semiconduttori, e ridurre la loro dipendenza dalla Cina nelle loro catene di approvvigionamento. Tuttavia, il rapporto di Rhodium avverte che anche se la diversificazione accelera, la quota complessiva della Cina nelle esportazioni globali, nella produzione e nelle catene di fornitura potrebbe continuare a crescere a causa della natura interconnessa di questi mercati.