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L’Italia del miracolo nelle voci raccolte da Carlesi

Un volume per non dimenticare coloro che hanno contribuito, ciascuno a proprio modo, con le proprie soddisfazioni e le proprie sofferenze, nei diversi ambiti politici, industriali, economici, giuridici in cui si sono cimentati con intelligenza e coraggio, a rendere l’Italia non tanto la nazione che è, ma quella che potrà essere e diventare. Pubblichiamo la prefazione al libro “L’Italia del miracolo”, a cura di Francesco Carlesi, Eclettica edizioni, firmata da Benedetto Ippolito

Introdurre un libro che parla dell’Italia, e in modo così specifico di un periodo tanto importante della nostra storia com’è stato quello del Miracolo economico, è sempre un dovere di studioso e un’emozione personale. L’arco temporale, infatti, che cade sotto questa definizione, e che in larga parte coincide con quanto ancora oggi costituisce il più imponente balzo storico in avanti della nostra economia, società e industria nazionale, non soltanto svela, in modo quasi dirompente, l’essenza della nostra identità più profonda, ma è in grado di dirci qualcosa di rilevante sul genio che individualmente si nasconde nelle persone che siamo e in coloro che abbiamo accanto.

Certamente il Secondo dopoguerra è stato un momento unico, inconfondibile e irripetibile della storia nazionale, gli anni della ricostruzione successiva alla disfatta del Fascismo, un momento in cui, proprio quando tutto sembrava perduto, quella generazione, fatta perlopiù di giovani appassionati, ha dovuto ricostruire daccapo tutto il nostro essere, cominciando dalla Costituzione dello Stato, passando per le istituzioni democratiche, per finire ad una modernalogica del lavoro e della produttività, che era stata per lungo tempo enfatizzata e, nel corso del Ventennio, paralizzata nell’alveo della retorica espansionista e velleitaria dell’ideologia fascista. L’acme di questo processo è indubbiamente coincisa con gli anni che vanno dalla metà degli anni ’50 del secolo scorso alla fine degli anni ’60. È una calibrazione convenzionale, storiografica, un segmento invero non dissociabile dal precedente periodo e dal successivo, ma che gode di una sua riconoscibilità precisa, a causa prevalentemente dell’accelerazione che in tanti ambiti il progresso economico, scientifico e tecnologico ha imposto allora alla nostra essenza. Nell’immediato dopoguerra, dal 1945 al 1955, l’Italia era ancora un Paese arretrato e ottocentesco, sotto quasi tutti i punti di vista, e, all’improvviso, nel giro di pochi lustri, eccoci arrivare ad una società completamente modificata nella sua struttura, in grado di competere a livello mondiale, prima ancora che europeo, con le nazioni più avanzate del mondo.

Questo protagonismo, da moltissimi angoli prospettici, non da ultimo quello culturale ed artistico, non è stato sicuramente una novità del popolo italiano. Basti pensare a quanto rilevante sia stata la nostra presenza intellettuale nel Vecchio Continente nel Medioevo, con figure di primo piano come Anselmo d’Aosta, Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, o nel Rinascimento, con Leonardo da Vinci o Galileo Galilei. Ciò che forse il mondo di un secolo fa probabilmente non si aspettava più è che l’Italia potesse essere ancora avamposto della genialità umana, apripista del futuro, in un’epoca moderna, segnata dalla tecnologia, dallo sviluppo giuridico, dalla politica industriale. Mi ricordo che da bambino chiesi a mio padre, passeggiando tra i bellissimi colli della Toscana, che cosa pensasse dell’Italia. E lui mi rispose, non senza un’amarezza il cui significato avrei capito moltianni dopo: “La mia generazione sognava che l’Italia non fosse più chiamata con l’appellativo vero, ma riduttivo e insopportabile, di Bel Paese: noi volevamo che fossimo apprezzati e rispettati per la nostra intelligenza creativa, moderna, produttiva, come avviene, in modo diverso oggi, per il Giappone!”. Questa affermazione, “non essere solo il Bel Paese!”, mi lasciò esterrefatto, soprattutto perché a farla era un uomo profondamente umanista che amava la storia e la filosofia più di quanto non lo appassionassero la scienza, l’ingegneria, la geologia e la fisica, di cui era un mito vivente.

Forse questo piccolo aneddoto può spiegarci il valore aggiunto che le personalità che sono descritte in questo libro, ciascuna a suo modo e non sempre in accordo tra loro, sono state in grado di portare nella vita di tutti noi. Un aspetto molto importante di questo lavoro collettaneo è indubbiamente il rilievo che hanno le personalità individuali.

L’Italia è un Paese nel quale la genialità è diffusa, spesso sopita dai tanti difetti e dalle enormi meschinità che abbiamo nel sangue, ma che si esprime a pieno attraverso la peculiarità e i talenti delle singole persone, della loro inconfondibile lungimiranza. L’affresco che ci avviamo a leggere è perciò molto importante, e lo è soprattutto oggi, un’epoca nella quale siamo chiamati ad inventarci un nuovo miracolo e nel quale, come allora, sono i giovani la vera missione, la vera fucina, dalla quale la speranza potrà divenire di nuovo realtà.

La nostra soggettività di italiani è incredibilmente ricca e varia, e, proprio per questo, tanto versatile e con tanto potenziale innovativo, sprecato e perduto. Ecco che dalle pagine sintetiche e chiare di questo libro è possibile farsi un’idea di cosa sia stato il Miracolo economico, mediante l’unica chiave di accesso possibile, costituita appunto dalla personalità diversa di questi protagonisti di eccellenza.

In primo luogo, Adriano Olivetti, trattato con maestria da Fabio Massimo Frattale Mascioli, la cui biografia ampia e affascinante è ripercorsa con precisione. Figlio di una famiglia importante e agiata, la personalità di Adriano vede mescolarsi e sintetizzarsi il retaggio religioso e culturale della nostra nazione, applicato ad una delle imprese tecnologiche più ardite ed imponenti della modernità: la creazione dei computer. Nonostante le difficoltà causate dal regime, Adriano Olivetti riuscì ad interpretare appieno il senso comunitario dell’impresa, trasformando, durante la guerra, le idee politiche di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain in un concetto comunitario di impresa, di fabbrica, di lavoro. Il “modello Olivetti”, incentrato sulla partecipazione diretta all’impresa e sul “conservatorismo sociale”, permise di coniugare, in un contesto di radicale individualismo e di crescente globalizzazione, la persona e la comunità al centro della vita industriale, un’eredità che non poteva essere compresa a pieno nel suo presente, ma che possedeva senza dubbio il futuro come proprio destino. Il contributo della ricca personalità filosofica di Olivetti è seguito da quella di un personaggio molto noto e conosciuto ma non altrettanto bene compreso: Enrico Mattei.

Stelio Fergola tratteggia i punti caratteristici del geniale contributo che Mattei ha apportato all’industria petrolifera italiana, con l’ambizione di portare il senso dello Stato all’interno dell’orgoglio di una idea di industria priva di condizionamenti e di timori reverenziali. L’Eni e l’Agip sono concepiti come avamposti di un’idea di industria nazionale che si pensa in grande, coniugandosi con la politica, utilizzandone i pregi e i difetti, e guardando al futuro con il coraggio di chi sa che, in tal modo, si può essere soltanto divenendo, al contempo, eroe e martire.

La terza personalità che incontriamo è Felice Ippolito, figura chiave dello sviluppo politico e industriale del nucleare energetico italiano, il cui itinerario è ripercorso da Luca Cupelli. Come per Mattei e per Olivetti, anche per Ippolito il fine è dare alla nazione un’au tonomia politica, economica, energetica, in questo caso collegata alla scommessa del nucleare. Come opportunamente viene rilevato, vi è un parallelo tra Ippolito e Mattei, che riposa nel tentativo di sfuggire ai limiti imposti dal sistema, emancipare cioè l’Italia dalle dipendenze servili e penalizzanti con l’estero, operare nel solco delle nazionalizzazioni e delle potenzialità umane del Meridione. Come per Mattei, anche se in modo non cruento, il destino non ha riservato successi e riconoscimenti ma umiliazioni e persecuzioni personali.

Il “caso Ippolito” è l’emblema della nostra Italia dei primi anni ’60, piena di contraddizioni e meschinità, che hanno impedito di sfruttare a pieno la lungimiranza delle idee del protagonista. Diversa, anche se altrettanto inserita in questo quadro d’insieme, è la figura di Donato Menichella, brillantemente ritratta da Lorenzo Castellani. Nel legame indissolubile tra politica e tecnocrazia, Menichella è stato un interprete della strategia dell’intervento pubblico in Italia, della creazione di una classe dirigente in grado di mantenersi nel passaggio generazionale, con competenza e capacità decisionale, sempre all’insegna di quel comune disegno ispirato ad un fecondo meridionalismo.

Molto interessante è poi il quarto contributo, dedicato a Costantino Mortati, di Gianluca Passera e Francesco Carlesi. Qui centrale diviene l’idea di Stato che l’Italia deve avere: non un guardiano notturno o un mero organismo assistenziale, ma un soggetto che attua, secondo il mandato costituzionale, l’istanza economica nel quadro della politica sociale del lavoro, di cui il primo articolo della nostra Costituzione svela la missione. Ancora una volta il riferimento ad una figura importante della filosofia cattolica del ‘900, Jacques Maritain, ritorna come ispiratore del senso vero del nostro Stato repubblicano. Una visione del bene comune, al contempo personalista e comunitaria, che reclama uno Stato forte che non si fondi e costituisca nella sovranità formale e autoritaria, ma nella realizzazione dello scopo sociale ed umano per cui esiste.

Per Mortati i nemici della democrazia sono comunismo e liberalismo, non occasionalmente o ideologicamente, ma costitutivamente ed eticamente. Lo Stato deve farsi esegeta di quel sistema misto che ha il suo vertice nella “proprietà sociale”, garantendo partecipazione e responsabilità, i cui lineamenti guardano alla grande tradizione classica, in primis Aristotele e Tommaso d’Aquino.

Non poteva mancare, in un quadro sinottico così ben articolato, la complessa personalità di Amintore Fanfani, ripercorsa da Filippo Burla. Lo statista aretino ha rappresentato in modo veramente emblematico il passaggio dal sistema corporativo alla visione sociale cattolica. La democrazia è intesa come piena attuazione della socialità del lavoro, concepita alla luce della Dottrina sociale della Chiesa e ancorata all’idea del “volontarismo economico”, di cui lo Stato è espressione ultima. Il controllo sociale dell’economia deve procedere dalla Costituzione alla società per mezzo dell’azione politica, che è organizzazione riformatrice e attiva espressa dal partito come organo democratico. Instancabile oppositore del conservatorismo liberale, Fanfani si è fatto interprete, intellettuale ed operativo, dell’economia keynesiana, dandogli una lettura originale e adeguata all’italianità.

Pressoché dimenticata, ma non meno imponente, in questa direzione, è la figura dell’economista Federico Caffè, a cui è dedicato il contributo di Claudio Freschi che chiude la rassegna. Qui potremo riscoprire l’opera divulgativa e profetica di un intellettuale che ha pensato sempre la scienza economica collegandola all’umanesimo filosofico di sfondo. Ritornano i grandi temi che abbiamo già incontrato nelle altre individualità del Miracolo: l’idea sociale dell’economia, la centralità della persona, la socialità vera, intesa come alternativa antropologica ai sistemi collettivisti e individualisti della modernità.

In conclusione, il lettore avrà la possibilità, attraverso le pagine fluide e compendiate di questo volume, di non dimenticare coloro che hanno contribuito, ciascuno a proprio modo, con le proprie soddisfazioni e le proprie sofferenze, nei diversi ambiti politici, industriali, economici, giuridici in cui si sono cimentati con intelligenza e coraggio, a rendere l’Italia non tanto la nazione che è, ma quella che potrà essere e diventare. Come spiegava Aristotele, la potenzialità di un essere, anche di una nazione, non sta, infatti, in ciò che è attualmente, ma in ciò che può divenire, restando se stesso.



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