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A woman of Paris, la famiglia secondo Charlie Chaplin

Il 26 settembre 1923 usciva “A Woman of Paris” di Charlie Chaplin. Un flop al botteghino, ma considerato un capolavoro del cinema mondiale. Il primo film sul perdono. Un omaggio alla famiglia

Ci innamoriamo, forse ci sposeremo, magari avremo dei bambini, sicuramente invecchieremo. Ma non possiamo far passare la nostra vita senza aver visto A Woman of Paris (La donna di Parigi, 1923) di Charlie Chaplin, la cui première avvenne il 26 settembre 1923.

Due anni prima il londinese trapiantato ad Hollywood, Charlie Chaplin, con The Kid (Il monello), raccontando la storia di un neonato abbandonato in strada, poi raccolto e accudito da un povero disoccupato, (Charlot), aveva fatto ridere e piangere il pubblico di cinque continenti. Il film venne definito dalla stampa mondiale, “universale”. Portava la gioia nei cuori dopo il massacro della Grande Guerra.

Quell’omino con i baffetti, conosciuto sin dal 1916-18 dal pubblico popolare, e già amato da molti autori dell’avanguardia (Blaise Cendrars, Guillaume Apollinaire, Giuseppe Ungaretti, Jean Cocteau, Pablo Picasso, Ricciotto Canudo, Man Ray, Fernand Léger) grazie ad alcuni, subito famosi, film (L’evaso, 1917; L’emigrante, 1917; Vita da cani, 1918; Charlot soldato, 1918) era entrato nel cuore di milioni di spettatori oltre che nella storia del cinema.

Charlot è un clochard, ricordiamolo, particolare: ha il volto curato e ben disegnato da baffetti gentili; indossa una bombetta inglese, che solleva con la mano per scusarsi appena commette una gaffe; porta un liso redingote vagamente vittoriano, e, in una mano, tiene un bastoncino da passeggio; in contrasto ha pantaloni larghi e scarpe grandi su due piedi piatti. Un middle-class man caduto in disgrazia, sul quale la povertà non ha cancellato i suoi modi gentili e quasi nobili.

Con la figura di Charlot, un povero, un ultimo, un mite, un puro di cuore, un’autentica figura Christi, Charlie Chaplin, aveva dato vita a personaggi esclusi dalla vita, a coloro che abitavano i margini sfilacciati delle città, le periferie della società, direbbe papa Francesco, del XX secolo.

Ecco un ex innocuo detenuto scambiato, contro il suo volere, per un pastore protestante commentare Davide e Golia nell’omelia domenicale; oppure un vagabondo (trump) che dorme in strada con i cani randagi, suoi amici, inventando educati sotterfugi comici persino nel furto di un hot-dog; ora è la volta di un migrante, come tanti oggi ne vediamo ancora, su un piroscafo pieno zeppo di compagni, entrare fiducioso nel porto di New York, con la statua della Libertà ad aspettarti; oppure, un improvvisato vetraio con il figlio adottivo, intento quest’ultimo a spaccare finestre a sassate, per poi consentire al padre di ripararle.

In qualunque situazione si trovi il nostro vagabondo, l’escluso dalla società, egli, satireggiando il potere (rappresentato dall’onnipresente poliziotto di quartiere) e il perbenismo con delicata ironia, ha sempre il sorriso su un volto d’adolescente e la felicità dei poveri nel cuore.

Per A Woman of Paris Chaplin si scusava con gli spettatori spiegando, tramite una didascalia, che in questo nuovo film non sarebbe stato presente Charlot. Il film fu un flop al botteghino. Il pubblico non perdonò a Chaplin l’assenza del buffo omino con i baffi. Una didascalia presentava la “morale” della storia, un dramma sentimentale tra due giovani amanti, cui Chaplin come autore pensava da anni: “Tutti noi aspiriamo al bene – pecchiamo solo nella cecità. L’ignorante condanna i nostri peccati, ma il saggio ne ha pietà”.

Il film definito da Chaplin (sempre nel cartello introduttivo) “dramma”, è in realtà un film melodrammatico. Il giovane pittore Jean (il belloccio e intenso Carl Miller), e Marie (la solare Edna Purviance, al tempo prima moglie di Chaplin), si amano. I genitori si oppongono al loro matrimonio e decidono di lasciare il loro villaggio nella campagna francese per andare a Parigi, e sposarsi. Ma per l’improvvisa morte del padre di Jean questi non si presenta alla stazione. Marie legge la sua assenza come un abbandono. A Parigi, anni dopo, Marie ha scalato la bella società, come amante mantenuta del borghese, Pierre Revel (il traslucido e viscidamente perfetto Adolphe Menjou), tutto ristoranti alla moda e fazzoletti profumati.

Anche Jean trasferitosi a Parigi con la madre vedova, sta cercando di fare strada come pittore. I due ex fidanzati si incontrano per caso. Riparte l’amore. Ma qualcosa va storto per una serie di equivoci. Jean si suicida in un ristorante accanto alla statua di una Venere.

L’anziana madre, che ritiene Marie colpevole della morte del figlio, decide di vendicarsi. Prende una pistola e va a casa di Marie, la donna di servizio le dice che Marie è andata da lei. Tornata a casa vede Marie china sul cadavere di suo figlio, nella sua cameretta, in preda a singulti e lacrime. L’anziana donna è commossa dal dolore sincero di Marie: ora, in una scena davvero toccante, allunga lentamente la mano verso quella di Marie. Unite nel dolore.

Nella scena finale la madre e la mancata sposa sono in una ampia cucina, con un grande tavolo al centro. Siamo in una spaziosa casa di campagna. Con quattro bambini che attorniano le due donne saltellando, mangiando, giocando (uno ha la bocca sporca di marmellata). Marie si è sposata? No. Le due donne hanno adottato dei bambini orfani. Hanno creato una sorta di casa-famiglia ante-litteram.

Con assoluta maestria nella sceneggiatura La donna di Parigi alterna alcuni momenti di tensione a molti altri umoristici cesellati da fine comicità. Pensiamo alla scena del ristorante dove Ravel, che vuole vantare una cultura culinaria, viene perso in giro dai cuochi che gli servono selvaggina puzzolente. Oppure, l’irresistibile scena della collana. Marie, nel suo signorile appartamento pagato da Pierre, discute con questi, sui valori della vita: vivere da ricca amante mantenuta, oppure scegliere una vita da povera moglie di un pittore ancora sconosciuto? Marie, stizzita, si strappa dal collo la collana e la getta dalla finestra per dimostrare a Pierre che non ama la ricchezza. Subito dopo, vedendo che un barbone l’ha raccolta meravigliato, si getta giù per le scale, per strapparla dalle mani dell’uomo, cui dà dei soldi. Ma tornando si spezza un tacco della scarpa, è costretta a zoppicare (forte metafora).

Alquanto tagliente anche la satira della festa borghese, in un interno, di coppie e single. Per animare la serata, tra i presenti già tutti ubriachi, la moglie di un invitato, avvolta in una striscia di lenzuolo, posta su una base girevole, viene “scartata”, ruotando, dal proprio marito, sino alla nudità che eccita i presenti (e che il pubblico, ovviamente, non vede). Chaplin alludeva alle viziose feste di Hollywood in cui alcool, cocaina, e, purtroppo, violenze sessuali erano di prassi. Questa scena non avrebbe passato la censura se ambientata negli Usa.

Dal punto di vista del linguaggio filmico A Woman of Paris faceva compiere un balzo in avanti alla sintassi filmica del muto. Innanzitutto, il montaggio in alternato raggiungeva la sua più alta duttilità narrativa. Sul piano della retorica Chaplin introduceva la sineddoche. Piacque agli osservatori del tempo il treno che arriva in stazione ma lo spettatore vede solo la luce degli scompartimenti scorrere sulla figura di Marie, triste e ritta sulla banchina. Sia Vladimir Majakovski (che vide il film a Parigi nel 1924) che Karel Teige, ne parlano positivamente nei loro scritti su Charlie Chaplin. Quest’ultimo, però, da buon marxista, rimproverò al film il suo finale da “sagrestia”.

Anche sul versante stilistico vi è un’innegabile ricerca. Per esempio, l’inizio del film, con la gigantesca ombra del padre-padrone di Marie “proiettata” sulla parete, che le vieta di uscire con Jean, è un fine omaggio al cinema espressionista tedesco del periodo.

La musica riscritta da Charlie Chaplin nel 1976, un anno pima della sua morte, piena di fiati, conferisce al racconto, tagliato dal regista di alcune brevi scene leggermente ridondanti, un ritmo perfetto nei tempi.

A Woman of Paris, dopo cento anni, mantiene la sua nitida attualità parlandoci di temi senza tempo: dell’amore vero; della necessità del perdono; del ruolo della famiglia. Soprattutto dell’amore che possiamo dare a dei bambini orfani. Chaplin aveva trasfuso nel film, come già in The Kid, la sua infanzia senza padre (anch’egli attore, alcolista, aveva abbandonato la famiglia), e poi della madre brava attrice, ma povera, ammalatasi fisicamente e mentalmente. Non appena iniziò a guadagnare come attore prima con Mack Sennett, poi con le sue regie, portò sua madre in Usa e la fece curare in clinica. Sostenne sempre su fratello, Sydney, meno fortunato nel cinema.

 



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