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Cosa penso del monito di Mario Draghi ai nuovi “sonnambuli” europei. Scrive Polillo

Il vecchio Patto di stabilità, con le sue regole e i suoi automatismi, è morto e sepolto. E non sarà possibile riportarlo in vita se non al prezzo di rischi esiziali per l’intera Europa. Gianfranco Polillo commenta l’intervento pubblicato dall’Economist a firma di Mario Draghi

Nuovo pressante appello di Mario Draghi al Gotha europeo. Nell’avviso ai naviganti, il messaggio è forte e chiaro: “Tornare alle vecchie regole fiscali – sospese durante la pandemia – sarebbe l’esito peggiore”. Insomma: il vecchio “Patto di stabilità”, con le sue regole ed i suoi automatismi, è morto e sepolto. E non sarà possibile riportarlo in vita se non al prezzo di rischi esiziali per l’intera Europa. Come il non “centrare i suoi obiettivi climatici”, non “fornire la sicurezza che i suoi cittadini chiedono”, perdere “la sua industria a vantaggio delle regioni che impongono meno vincoli”.

Non è la prima volta che l’ex presidente della Bce cerca di svegliare i “sonnambuli”: un’etnia che non è scomparsa all’indomani della Grande guerra. Meno di due mesi fa (12 luglio) aveva tenuto a Cambridge una lectio magistralis, in onore di Martin Feldstein, sugli stessi temi. Poco l’interesse suscitato tra gli addetti ai lavori (politici e burocrati ad essi legati), molto forte, invece, la reazione della gente comune che, al di là degli inevitabili specialismi, era stata in grado di cogliere il senso del pericolo e dell’urgenza racchiusi in quelle parole.

Il ritornare su quegli stessi argomenti, dalla pagine dell’Economist, ha, quindi, una motivazione precisa. Preoccupa, infatti, il taglio burocratico, con cui, a Bruxelles, si sta discutendo sulla riforma del “Patto di stabilità e crescita”. Due i limiti più vistosi, a quanto si può vedere. Nessuna riflessione sull’Europa in quanto tale. Come se questa realtà sovranazionale non esistesse, non avesse compiti propri, non si trovasse a far fronte a problemi – dall’immigrazione ai cambiamenti dei rapporti geopolitici tra le diverse aree del mondo, al clima – che richiedono una risposta comune.

Come nel passato si continua a ritenere che la chiave nazionale sia quella risolutiva. Che ciascuno “faccia i compiti” che gli sono stati assegnati ed alla fine tutto quadrerà. Lo si provi a dire a Vladimir Putin, che non mira ad altro che colpire il cuore l’Europa come entità sovranazionale, per recuperare quei territori che le vicende storiche di oltre 100 fa, avevano collocato al di fuori dei confini del vecchio impero zarista. Lo si dica ai Paesi di Opec+ che restringono la produzione di idrocarburi, in un impensabile ritorno agli anni ‘70. Almeno allora c’era stata la guerra del Kippur, tra Israele ed il resto del mondo arabo. Oggi, invece, ci sono le grandi autocrazie – Cina e Russia in testa – che cercano proseliti nel Sud globale, contro tutto l’Occidente.

Nemmeno gli orrori di una guerra, come quella che sta vivendo l’Ucraina, è riuscita a canalizzare le energie necessarie, a livello internazionale, per imporre uno stop, una tregua, una qualche forma di “cessate il fuoco”. Ed invece a Bruxelles si ragiona come se fossimo ancora nel 2018, quando l’epidemia di Covid non si era ancora appalesata e l’Europa non aveva sperimentato le nuove regole della Next Generation Ue. Quel salto di qualità nella gestione della cosa comune, che aveva portato a superare la vecchia concezione di “un’area valutaria non ottimale” su cui Robert Mundell aveva scritto pagine memorabili.

Ma senza voler insistere sugli aspetti di natura teorica, è alla realtà che si deve guardare. Alla crisi che sta investendo le principali economie del continente: Francia, Italia e Germania. Tutte e tre coinvolte, seppure con modalità in parte differenti, in un “insolito destino”. Gli ultimi dati (secondo trimestre) mostrano i primi sintomi di una crisi, che non è congiunturale, ma riflesso dello stesso shock esterno. Secondo i rispettivi Istituti di statistica, “l’acquisito” – tasso di crescita di fine anno nell’ipotesi dei due successivi trimestri piatti – è pari allo 0,8 per cento per Parigi ed allo O,7 per cento per l’Italia, mentre Berlino è, da più tempo, in recessione.

Semplice fatto congiunturale? Ne dubitiamo. Meglio pensare alla fine di un vecchio ciclo basato sulla forza traente della Germania. I cui punti di forza erano il rapporto privilegiato con la Russia, in tema di forniture energetiche, e il grande mercato della Cina per le proprie esportazioni. Entrambi sono venuti meno. “Le strategie – afferma in chiusura del suo intervento Mario Draghi – che hanno garantito in passato la prosperità e la sicurezza dell’Europa – fare affidamento sull’America per la sicurezza, sulla Cina per le esportazioni e sulla Russia per l’energia – sono diventate insufficienti, incerte o inaccettabili.” Prenderne atto e comportarsi di conseguenza non è più un atto di semplice lungimiranza, ma vero e proprio istinto di sopravvivenza.


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