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Perché il Mediterraneo è un’area fragile nella transizione ecologica

Secondo l’ultimo rapporto Ispra sui mari italiani, presentato a Palermo, le attività di monitoraggio “hanno rilevato 78 specie, tra cui 25 anellidi, 18 crostacei e 11 molluschi. Di queste 20 sono esclusive del Mar Adriatico, 9 del Mar Ionio e 17 del Mar Tirreno, mentre 11 specie sono comuni ai tre mari italiani. Alcune di queste specie, considerate invasive, sono state rinvenute per la prima volta nell’area interessata”

Il Mar Mediterraneo è un’area particolarmente esposta ai cambiamenti climatici, per la sua configurazione e la sua posizione. Lo dimostrano studi e ricerche che hanno evidenziato una fragilità e un livello di allarme secondo solo a quello del Polo Artico. Le temperature del bacino del Mediterraneo nel mese di luglio hanno superato di alcuni gradi le medie stagionali: nel Golfo di Taranto le acque superficiali, secondo uno studio del Centro euro mediterraneo per i cambiamenti climatici, hanno raggiunti picchi di trenta gradi. Lo scorso anno un’ondata di calore record aveva colpito il Mar Ligure superando di 5 gradi la media del periodo. Questo aumento della temperatura protratto nel tempo ha un impatto negativo su tutto l’ecosistema marino, soprattutto per la fauna ittica, con conseguenze sulla riproduzione e sulla sopravvivenza stessa di molte specie.

Secondo l’ultimo rapporto Ipcc la regione mediterranea “si è riscaldata e continuerà a riscaldarsi maggiormente della media globale”. Il livello del mare aumenterà in maniera irreversibile e progressiva “su scale plurisecolari”. I rischi associati al cambiamento climatico sono particolarmente elevati per le persone e gli ecosistemi terrestri e marini a causa della combinazione di alcuni fattori quali: una popolazione urbana in crescita; il numero elevato di persone che vivono in insediamenti colpiti dall’innalzamento del livello del mare; la grave e crescente carenza idrica; la perdita di ecosistemi marini, molti dei quali messi in pericolo da pratiche non sostenibili come la pesca eccessiva.
L’allarme lanciato da molti operatori sull’invasione del “Granchio blu” nei nostri mari è solo l’ultimo di una folta schiera.

Secondo l’ultimo rapporto Ispra sui mari italiani, presentato ieri a Palermo, le attività di monitoraggio condotte dalle Arpa regionali, soprattutto nelle aree portuali, dove maggiore è il rischio di introduzione, “hanno rilevato 78 specie, tra cui 25 anellidi, 18 crostacei e 11 molluschi. Di queste 20 sono esclusive del Mar Adriatico, 9 del Mar Ionio e 17 del Mar Tirreno, mentre 11 specie sono comuni ai tre mari italiani. Alcune di queste specie, considerate invasive, sono state rinvenute per la prima volta nell’area interessata”.

La direttiva europea sulla Strategia per l’ambiente marino promuove l’adozione di misure mirate alla salvaguardia dell’ecosistema per il raggiungimento di quello che chiama “buono stato ambientale” delle acque marine, ossia “la capacità di preservare la diversità ecologica, la vitalità dei mari affinchè siano puliti, sani e produttivi mantenendo l’utilizzo dell’ambiente marino ad un livello sostenibile e salvaguardando il potenziale per gli usi e le attività delle generazioni presenti e future”. Garantisce, inoltre, il quadro politico e giuridico per l’adempimento degli impegni internazionali relativi alla protezione della biodiversità marina, come la Convenzione sulla Biodiversità Biologica e la Convenzione di Barcellona per la protezione del Mediterraneo. La direttiva stabilisce che ogni Stato membro elabori una propria strategia “sulla definizione del buono stato ambientale, sull’individuazione dei traguardi ambientali e sull’istituzione di programmi di monitoraggio” per la valutazione continua dello stato dell’ambiente delle acque marine.

“Quella che presentiamo oggi è solo una piccola parte del lavoro che tutto il Sistema, in collaborazione con gli enti di ricerca e le università italiane sta portando avanti per fornire elementi utili ad una Strategia del mare che sia efficace e coerente con gli obiettivi che ci derivano dagli obblighi europei e internazionali – ha detto Maria Siclari, direttore generale di Ispra – Risponde anche alla necessità di comunicare il dato ambientale e rappresentare il lavoro di un Sistema che opera ormai da tempo in stretta sinergia”.

Il monitoraggio ha censito formazioni coralline (nel Mediterraneo si chiamano “coralligene”) in 8 regioni e 160 siti. Rappresenta, insieme alla Posidonia oceanica, la maggiore fonte di biodiversità nei nostri mari ed è stato inserito tra gli habitat che necessitano di tutela integrale. (Per chi volesse conoscere in maniera più approfondita il coralligeno può consultare l’Atlante della flora e della fauna marina “Pinneggiando nei mari italiani” di Bertolino e Ferranti). Situazione meno incoraggiante proprio per la Posidonia, pianta endemica del Mediterraneo. Il monitoraggio ha evidenziato come il 25% delle praterie presenta “una bassa densità dei fasci”: Anche se, nelle circa 100 aree indagate, la densità è normale nel 63% dei casi ed eccezionale nell’11%.

Per quanto riguarda i rifiuti marini il monitoraggio rileva una riduzione significativa pari a quasi la metà dei rifiuti piaggiati, ossia “i rifiuti presenti sugli arenili ogni 100 metri”. Siamo ancora lontani dall’obiettivo europeo: “dai 460 del 2015 sono 273 nel 2021, mentre l’Europa pone come target non oltre 20” per un buono stato ambientale. Quanto ai rifiuti in acqua “nel periodo 2018-22 si registra una densità costiera media di 105 oggetti per chilometro quadrato e una densità media offshore di 3 oggetti”. Più dell’80% di questi rifiuti sono composti da polimeri artificiali, il 20% dei quali da plastiche monouso.

Dallo scorso luglio anche il nostro Paese ha il suo Piano del mare. Lo ha approvato il Comitato interministeriale per le politiche del mare presieduto dal ministro Nello Musumeci. “Il primo importante passo è stato fatto , ha dichiarato lo stesso ministro, L’Italia intende guardare al mare con occhi nuovi, sempre più attenti alla sua salvaguardia e valorizzazione”. Al forum “Risorsa Mare”, che si è svolto a Trieste a metà settembre, organizzato dal Ministero per le Politiche del Mare, è stato presentato uno studio, realizzato dallo studio Ambrosetti, che ha identificato otto macro-aree di attività ed elaborato una serie di proposte “per liberare il potenziale del sistema Paese: logistica e portualità, industria marittima, energia del mare, filiera ittica, tutela ambientale, subacquea, turismo costiero e cooperazione internazionale”.

Secondo dati della Commissione europea, nel 2019 il valore aggiunto prodotto dall’economia del mare nei 27 Paesi dell’Unione Europea è stato di circa 185 miliardi di euro (l’1,5% del totale dell’economia dell’Unione) e gli occupati sono 4 milioni e mezzo (il 2,3% del totale occupati Ue). L’Italia è il terzo Paese sia per valore aggiunto che per occupati (rispettivamente 24 miliardi e mezzo e 540 mila addetti). Un sistema economico che contribuisce con circa 65 miliardi al Pil del Paese.

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