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L’austerity di Monti e il mondo che è cambiato. Il commento di Polillo

Oggi, in una fase così complessa della vita internazionale, dove la volontà di potenza mira a sconvolgere i precedenti equilibri geopolitici, è difficile pensare di poter separare i problemi finanziari dai temi di carattere più generale. Per questo le scarse risorse disponibili devono essere utilizzate con cura, ma senza perdere di vista l’orizzonte più complessivo. Che deve rappresentare l’unica vera frontiera dell’agire collettivo. Il commento di Gianfranco Polillo

Difficile dire se l’intervento di Mario Monti, dalle colonne de Il Corriere della sera, volesse essere il controcanto all’intervista di Mario Draghi dalle pagine dell’Economist. Unica certezza è il suo agitare una linea di politica completamente rovesciata. Una sorta di “Ritorno allo statuto” di sonniniana memoria contro questi tempi malati, che nell’immaginario dell’ex presidente del Consiglio, nonché senatore a vita, assumono la forma di “anni di espansione monetaria senza precedenti, di tassi di interesse a zero o negativi, di disavanzi pubblici in continuo aumento” destinati inevitabilmente a provocare “danni”.

Come se il “quantitative easing” o il “Whatever it takes” fosse stato solo il frutto di una scelta scellerata e non il tentativo per far fronte ad una crisi che nasceva dalle viscere dell’ortodossia finanziaria. Leggi: un potere assoluto delle banche, soprattutto americane, che avevano trasformato il mercato in un grande casinò planetario. Sono queste le lacune che rendono debole l’intero ragionamento.

Il fallimento della Lehman Brother, nel 2008, come conseguenza di gestioni senza regole, provocò un’onda d’urto che investì l’intero mercato internazionale, ma soprattutto alcune aree. La liquidità, immessa a piene mani sul mercato bancario a tassi prossimi allo zero dalla Fed a sostegno di banche e compagnie di assicurazione, nonché il programma di acquisto di titoli cartolarizzati Tarp (Troubled asset relief program), per un importo finale di 7.700 miliardi di dollari fu necessario – giusto o sbagliata che fosse quella scelta – per evitare un contagio che avrebbe esteso la catena dei fallimenti.

Tutto questo non fu senza conseguenza a partire da un’inflazione che rialzò la testa, investendo anche i prodotti agricoli. Ed in particolare il grano: bene di consumo essenziale per l’intero Medio Oriente. Dove i principali Paesi, con la sola esclusione del Marocco, risposero dando luogo alle cosiddette “primavere arabe”. Mentre nella Federazione Russa gli investitori esteri, a causa delle maggiori incertezze dei mercati internazionali, tiravano i remi in barca. Dando luogo a quel capovolgimento della politica di Putin, fino ad allora aperta verso l’Occidente che, negli anni successivi, lo porterà ad abbandonarla. Per rivisitare i miti del passato, e riscoprire il fascino imperiale degli Zar.

In Europa, invece, quella crisi segnò la fine dei cosiddetti “trasferimenti impliciti”. Quel sistema di finanziamento che consentiva ai singoli Paesi, anche se in deficit nelle loro partite correnti della bilancia dei pagamenti, di ottenere le risorse necessarie senza pagare il sovrapprezzo degli spread. Che in quegli anni, dal 2001 al 2007, presentarono un differenziale quasi inesistente. La crisi greca, segnò, una prima incrinatura di quel mondo. Ma la loro estinzione fu conseguenza dell’accordo di Deauville, tra la Merkel e Sarkozy. E della minaccia di coinvolgere i capitali privati nell’eventuale default dei debiti sovrani. Da allora lo spread divenne la misura del rischio implicito in qualsiasi investimento.

Mario Draghi, nel suo intervento a Cambridge, ha calcolato che, in conseguenza di quegli eventi “l’orientamento fiscale dell’area dell’euro si era inasprito di circa 4 punti percentuali del Pil potenziale dal 2011 al 2013, anche nei Paesi che, disponevano di un ampio margine di bilancio e non avevano subito pressioni di mercato, riducendo così la domanda per le esportazioni dai Paesi senza spazio fiscale”. Amplificando, di conseguenza, la portata della crisi. Per cui “in Grecia e in altri Paesi, anni di austerità” avevano “alimentato un crescente populismo. Ma in Germania, anche l’euroscetticismo” era “cresciuto facendo comparire nuovi partiti che si opponevano ai salvataggi e temevano di prendere a bordo i paesi più deboli”.

L’Italia non fece eccezione. I 5 Stelle, fecero il loro ingresso nel Parlamento nel 2013 e divennero il primo partito politico italiano nel 2018 a dimostrazione di quanto fosse stata profonda e sofferta la crisi italiana. Allora il Bocconiano Francesco Daveri scrisse sulla voce.info: “Mancano 25 punti di produzione rispetto a prima della crisi (2014 su 2013 ndr.). Una voragine che non si chiude.” Per questo la critica di Mario Monti nei confronti di Giancarlo Giorgetti appare comunque ingenerosa. Era “sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel 2019 quando venne introdotto il reddito di cittadinanza … Ed era ministro dello Sviluppo quando il governo, pur avendo mosso critiche importanti al Superbonus 110%, ne propose la proroga”.

Queste le accuse rivolte, che ignorano volutamente i dati del contesto. Sidney Sonnino voleva tornare allo Statuto. Contenere l’influenza delle Camere sulle decisioni governative e rendere più cogenti le prerogative regie. L’appello risultò inascoltato. Oggi, in una fase così complessa della vita internazionale, dove la volontà di potenza mira a sconvolgere i precedenti equilibri geopolitici, è difficile pensare di poter separare i problemi finanziari dai temi di carattere più generale. Che sono poi quelli della sicurezza nazionale, della lotta ai cambiamenti climatici, alla riconversione produttiva per costruire le nuove catene del valore. E via dicendo. Proprio per questi motivi le scarse risorse disponibili devono essere utilizzate con cura, ma senza perdere di vista quest’orizzonte più complessivo. Che deve rappresentare l’unica vera frontiera dell’agire collettivo.

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