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Cuneo fiscale e deficit, le due certezze di Meloni aspettando l’Europa

Sul tavolo del Consiglio dei ministri sta per arrivare l’aggiornamento dei saldi che darà la cifra della prossima manovra. L’imperativo è il taglio strutturale del costo del lavoro, tenendo ben presente che un deficit oltre il 4% non è contemplato. Il realismo di Giorgetti applicato ai numeri

La manovra la stanno ancora scrivendo al Tesoro, nelle stanze del Palazzo voluto da Quintino Sella. Ma per il governo di Giorgia Meloni è già tempo di dare un peso effettivo alla prima, vera, finanziaria stesa in tandem con il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. Uomo della prudenza, dei mal di pancia al solo sentir parlare di superbonus e decisamente poco incline alle alchimie con i soldi dei contribuenti. Una postura che fino ad oggi ha garantito all’Italia la protezione dalla speculazione sui mercati (qui l’intervista all’economista Mario Baldassarri).

Ma ora è tempo di fare i conti. Giovedì sul tavolo del Consiglio dei ministri arriverà la Nota di aggiornamento del Def, che segna l’appuntamento con la revisione dei saldi di bilancio e dunque con il perimetro della prossima manovra. Si capirà, insomma, quanto effettivamente il governo può spendere. Che la legge di Bilancio sia improntata al realismo e alla prudenza, è cosa certa. La coperta è corta e quello che conta davvero è ridurre in modo strutturale il cuneo fiscale e garantire una manciata di bonus, a cominciare dalla benzina.

L’obiettivo sarebbe arrivare a una manovra da 30 miliardi di euro, ma sembra più facile che si arriverà attorno ai 20. Considerando che confermare il taglio del cuneo fiscale ne costerebbe fino a 14 (al momento sicuri ce ne sono non più di 6) e che ci sono molti altri impegni (la sanità chiede 4 miliardi, poi ci sono i tagli dell’Irpef, le pensioni, anche i primi fondi per il Ponte sullo Stretto), far quadrare i conti non sarà semplice.

Da dove verranno questi soldi? Ci sono, innanzitutto, alcune tasse a cui il governo potrebbe fare ricorso. Ad esempio, la sugar tax e la plastic tax: sono due imposte che potrebbero portare allo Stato circa 650 milioni di euro all’anno, approvate già dal secondo governo Conte e mai entrate in vigore. Fratelli d’Italia in tal proposito ha già parlato della possibilità di nuove tasse sui giochi, da cui trarre fondi per la sanità. Attenzione, perché quello che non si finanzia con le tasse, lo si fa con il deficit.

Il governo punta a portarsi non oltre il 4%, per non irritare troppo i mercati e l’Europa, visto e considerata anche la delicata fase di riscrittura del Patto di stabilità. In una recente nota, gli analisti di Barclays hanno alzato le stime di deficit al 5% per il 2023 e posto sotto osservazione la stima del 2024 che avevano fissato al 4%. Potrebbe, per loro, esser di più. Per Unicredit, ci si avvicinerà alla soglia del 4%. Di sicuro, il grande spauracchio sono proprio le regole europee, che per ammissione e senso della realtà dello stesso Giorgetti non possono rimanere tali. Vorrebbe dire imbrigliare l’intera finanziaria e ipotecare una discreta quota di crescita. E questo Palazzo Chigi non lo vuole, tanto quanto il Mef.

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