Giorgio Napolitano dopo la caduta del muro di Berlino, post comunista che guarda alla cooperazione est ovest e al ruolo dell’Europa, raccontato da Maurizio Guandalini
L’ho conosciuto più di trent’anni fa. Era, dal luglio 1989, ministro degli Esteri del governo ombra del Pci e parlamentare europeo. Io, poco più che ventenne, con autorevolezza da sedimentare e background assente, scrivevo per l’Unità e collaboravo con l’Istituto per la Formazione Politica della Direzione comunista “Palmiro Togliatti” di Roma.
Era caduto il muro di Berlino. Realizzai (con l’Unità e Istituto insieme), senza filtri e concessioni di autorizzazioni dall’alto, un evento internazionale sugli investimenti nei Paesi dell’Est, sicuramente il primo in Italia. Un avvenimento sconvolgente anche per un partito comunista occidentale. Europeo. Come quello italiano. Si svolse il 16 e il 17 marzo 1990 nell’Aula Magna dell’Istituto di Frattocchie. Dietro il tavolo dei relatori il maestoso quadro di Guttuso, La Battaglia di Ponte Ammiraglio. Parteciparono decine e decine d’imprenditori. E tra i relatori alcuni consiglieri economici di Gorbaciov. Sotto gli occhi vigili e attenti del professor Victor Uckmar, uno dei più insigni esperti di diritto tributario, sia italiano che internazionale, per primo in Russia, poi in tanti Paesi del mondo (in particolare Cina e America Latina), ha collaborato a scrivere la prima legge sulle joint venture, società a capitale misto, del Paese comunista.
Napolitano apprezzava Uckmar e il suo lavoro intenso, pignolo ricco di visione sul futuro verso la parte sovietica, soprattutto per l’ascolto che c’è stato in materia di definizione delle regole per le società a capitale misto e quindi lo sforzo immane di integrare e amalgamare realtà politiche, culturali ed economiche così diverse. Dialogare e parlarsi erano il frutto della trasparenza inserita nel sistema da Gorbaciov. Est-Ovest.
Quando nel 1990 curai il libro, di questo eccezionale incontro, dal titolo “Investire all’Est. Prospettive economico commerciali nel mercato della prossima generazione”, Giorgio Napolitano scrisse un’accurata e puntuale prefazione che dispensava lucidamente il suo pensiero sugli stravolgimenti in corso nell’ex Urss e gli echi, o meglio, le necessità di riflessioni approfondite da parte del partito comunista italiano. Scriveva Napolitano nel 1990: “Anche un partito di opposizione, che sia e voglia restare una grande forza politica e che intenda a candidarsi credibilmente al governo del Paese, deve misurarsi con i processi reali che attraversano il mondo dell’economia e delle relazioni internazionali, altrimenti la sua stessa presenza nelle istituzioni si fa meno incisiva e la sua politica assume piuttosto i tratti della propaganda, della predicazione astratta o della proposizione generica”.
Una lezione (che Napolitano svilupperà in due suoi libri, “Al di là del guado”, del 1990 e “Europa e America dopo l’89” del 1992) utile a interpretare accadimenti e comportamenti politici epocali per il comunismo e per la società mondiale.
Ho raccontato questo episodio di Napolitano in parallelo, generazionale, entrambi nati nel 1925, con Victor Uckmar – col quale, in coppia, abbiamo scritto libri fino alla sua scomparsa nel 2016 -, perché persone di questa caratura, sensibilità, dirittura morale, estensione culturale non le rincontreremo. Non si ripresenteranno. Scriveva Giuliano Amato nella prefazione di un libro di Umberto Ranieri “l’élite dirigente del Pci fu forse la più colta del panorama politico italiano”. Napolitano ricorda tratti comuni con un “monarca” repubblicano, il socialista Francois Mitterand che ha condotto la Francia per quattordici anni.
La capacità di tenere la barra dritta. Nello sguardo severo, parafrasando il libro di Giorgio Amendola, c’era “una scelta di vita”. Il primato della politica. Di frequente, osservando le relazioni internazionali in tempo di guerra russo-ucraino, costatiamo l’assenza di statisti. È stato invocato il centenario Henry Kissinger per consolidare soluzioni trattativiste al caos odierno. E poi sono stati ricordati coloro che non ci sono più, Khol, Chirac e Brandt. In quel pantheon, oggi, occupa un posto di rilievo anche Napolitano. Che spingeva a investire energie e risorse in una politica di cooperazione tra Est e Ovest e al ruolo nuovo che l’Europa poteva assumere nello sviluppo mondiale a dispetto dei giudizi e delle previsioni che davano per ormai spostato il baricentro dall’Atlantico al Pacifico. Scriveva Napolitano: “L’imprevedibile e sempre più accelerata unificazione tedesca introduce fattori di possibile distorsione nel processo di integrazione comunitaria e di cooperazione paneuropea e in questo contesto tocca all’Italia colmare rapidamente i propri ritardi e le proprie debolezze, dar prova di particolare dinamismo anche sulla nuova frontiera dei rapporti con l’Est, concorrere a un nuovo valido equilibrio complessivo”. E così continuava: “Il mondo è più che mai uno solo e le prospettive della crescita, del progresso economico e civile della pace vanno considerate e coltivate globalmente, senza perdere di vista nessuna delle connessioni e delle sfide cui è legato il nostro comune futuro”.
Non abbiamo accortezza del pensiero, e delle soluzioni, del Presidente Napolitano rispetto alla guerra in corso, del ruolo dell’Europa e dell’Italia, sugli smottamenti a carico della globalizzazione. Ma il suo approccio alla fine degli anni Ottanta rispetto a un processo di trasformazione sistemica dell’Est, senza precedenti nella storia, evidenzia la focalizzazione di Napolitano sui valori della conoscenza (prima di investire), dell’education (prima del business), dell’ascolto, della cooperazione. E della pace.
Questa deve rimanere la lezione, la guida delle complesse relazioni internazionali tra popoli e culture diverse, nei prossimi decenni.