L’ambasciatore Stefano Stefanini, già rappresentante permanente dell’Italia alla Nato e consigliere diplomatico di Giorgio Napolitano, ricorda le sue mosse di diplomazia pubblica e privata e i momenti significativi della storia recente d’Italia nei quali ebbe un ruolo di primo piano
Dal Quirinale, Palazzo di papi, re e presidenti che ha nei cromosomi mezzo millennio di potere, Giorgio Napolitano svolse un ruolo critico nella politica estera italiana. La Costituzione assegna al Presidente della Repubblica una funzione internazionale essenzialmente di rappresentanza. Ma la natura aborre il vuoto.
Con un presidente del Consiglio che limitava la sua attività internazionale agli inderogabili Consigli europei e vertici vari, ma aveva praticamente desistito dalle visite bilaterali, l’Italia dell’ultimo governo Berlusconi (2008-2011) era latitante sulla scena internazionale. In queste circostanze, la “rappresentanza” di cui era portatore il Presidente della Repubblica faceva politica estera.
Concorsero tre fattori: coinvolgimento del governo; domanda, esterna ed interna; prestigio e accesso all’estero. Napolitano lavorava sempre “col” governo. Non c’è visita all’estero o incontro di interlocutori ufficiali stranieri in Italia che il Capo dello Stato non sia stato accompagnato dal ministro degli Esteri o da un vice ministro o sottosegretario. Con i quali – Franco Frattini, Stefania Craxi, Alfredo Mantica, Vincenzo Scotti – Giorgio Napolitano aveva intessuto un rapporto di reciproca fiducia, stima e collaborazione. Ne apprezzava la competenza. Per quanto potessero venire da percorsi diversi, tutti trovavano facilmente terreno d’intesa nell’interesse nazionale. A far squadra in politica estera questo basta e avanza.
Domanda. Ambasciatori stranieri, spesso di Paesi importanti per l’Italia, battevano alla porta del Quirinale per una visita, in entrata o in uscita. Il che è fisiologico – l’Italia ha relazioni diplomatiche con quasi 200 Paesi. Ma la mancanza di visite all’estero dell’allora presidente del Consiglio faceva sì che alla domanda dall’estero si aggiungesse la domanda dall’Italia: dagli ambienti imprenditoriali, dalle reti culturali e, per vie traverse, da stessi ministri di governo. La motivazione era sempre la stessa: c’è bisogno di una presenza italiana al massimo livello. Per la Libia all’indomani della caduta di Gheddafi la chiese personalmente al Presidente l’ad di Eni, Paolo Scaroni – non fu possibile accontentarlo solo per ragioni di sicurezza.
Infine, Giorgio Napolitano si muoveva in campo internazionale come un pesce nell’acqua. Contava su un’articolata rete di rapporti politico-culturali in Europa e fuori. E non la limitava a chi “la pensava come lui”. Di qui la simpatia, ricambiata, per l’euroscettico Presidente ceco, Václav Klaus. O l’amicizia scherzosa costruita con Henry Kissinger. O la fiducia che spinse papa Benedetto XVI ad anticipare al non credente Presidente italiano la decisione senza precedenti – Napolitano glielo fece notare – di dare le dimissioni dal Soglio Pontificio settimane prima di annunciarle. Fiducia ben riposta: nulla trapelò dentro o fuori dal Quirinale. L’amore approfondito per la musica classica univa Giorgio Napolitano e papa Ratzinger. Lo stesso rapporto confidenziale si stabilì subito con papa Francesco. Dopo il primo incontro nel giugno del 2013, al portavoce che gli chiedeva cosa dire della breve conversazione in privato, Napolitano rispose “che era una conversazione privata e rimane tale”.
Ma, al di là del prestigio, quale fu l’impatto di Giorgio Napolitano? La politica estera italiana scorre tra possenti argini: la Costituzione e la Carta delle Nazioni Unite; l’integrazione europea di cui l’Italia è stata artefice originario; la Nato e il legame con gli Stati Uniti; il vicinato non Ue – Balcani, Mediterraneo – la geografia è inesorabile. Sensibilità politiche, economiche, culturali adattano il corso ma possono non deviarlo senza urtare con l’interesse nazionale. Napolitano ha innanzitutto rafforzato gli argini che più avvertivano la stanchezza internazionale dell’ultimo governo Berlusconi specie a Bruxelles e Washington. Ed ebbe un valore aggiunto su tutti i fronti dalla visita di Stato in Cina nel 2010 a quella in Tunisia nell’autunno del 2011, improvvisata a caldo dopo le primavere arabe.
Giorgio Napolitano era maestro di diplomazia pubblica e privata. Diede un impulso decisivo alla definitiva normalizzazione psicologica dei rapporti con Slovenia e Croazia nel rispetto di sensibilità difficili da conciliare. Occorrevano sia tocco leggero che forte visibilità, culminata a Trieste nel luglio del 2010. Operò dietro le quinte, mobilitando la sua formidabile rete di contatti europei, con forti pressioni su partner riluttanti, per sostenere la nomina di Mario Draghi a governatore della Banca Centrale Europea. Draghi era era il candidato più qualificato, ma le resistenze c’erano; Napolitano fu il suo grande elettore. Il resto, il “whatever it takes”, il salvataggio dell’euro, è storia.
E ci fu anche la Libia. Ancora oggi si discute della decisione italiana di partecipare all’intervento Nato Unified Protector che determinò la caduta del regime di Gheddafi. Il Presidente della Repubblica ebbe indubbiamente un ruolo determinante – incoraggiato da molti all’interno del governo – nel superare le esitazioni del presidente del Consiglio. Gli si muove una duplice critica: di aver travalicato le funzioni costituzionali; di un errore politico e strategico, la fine di Gheddafi. La prima non regge all’esame dei fatti. Il Consiglio supremo difesa, presieduto da Napolitano con al suo fianco Berlusconi, stabilì che l’Italia si sarebbe allineata alla linea adottata dall’Onu, dall’Ue e dalla Nato. Il dado era tratto: si sapeva benissimo cosa bolliva in pentola, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza autorizzante l’uso della forza, cui avrebbe fatto seguito l’intervento della Nato. Silvio Berlusconi non battè ciglio.
Fu un errore? La caduta di Gheddafi aprì la stagione d’instabilità che la Libia sta ancora vivendo. Ammesso e non concesso che la stabilità gheddafiana fosse preferibile al disordine post-gheddafiano, stendendo un velo sulle malefatte del Colonnello, sul suo flirtare col terrorismo (mai sentita nominare Lockerbie?) e sulla proliferazione, sulla prospettiva di una repressione nel sangue della rivolta di Bengasi, stile Assad su Aleppo, la sorte del regime libico era già segnata. Francia e Regno Unito avevano deciso d’intervenire, con o senza cappello Nato; gli Usa non si opponevano. Per l’Italia il chiamarsi fuori dall’intervento non avrebbe salvato Gheddafi; avrebbe semplicemente tagliato i ponti italiani col dopo-Ghedddafi. “Non possiamo non partecipare, non abbiamo scelta”: chi lo disse a Berlusconi nell’ormai mitica nottata al Teatro dell’Opera dopo il Nabucco che celebrava il 150mo anniversario dell’Unità, non fu Giorgio Napolitano. Fu il suo (di Berlusconi) consigliere diplomatico, Bruno Archi, con coraggio e realismo.
La Libia è un’importante pagina ancora aperta nella politica estera italiana. Ma guardando al futuro non al passato. Giorgio Napolitano aiutò allora a tenere dritta la barra della zigzagante barca nazionale. L’Italia conservò accesso a Tripoli e Bengasi e credibilità a Bruxelles. Poté mantenere, unico Paese Ue, l’ambasciata di Tripoli sempre aperta, tranne un breve intervallo, tutti questi difficili anni. Grazie anche a Giorgio Napolitano. Questo il motivo per cui, poco dopo la caduta di Gheddafi, Paolo Scaroni chiedeva a lui non ad altri di andare in Libia. E sapeva di cosa parlava.