Gli spazi di bilancio sono molto stretti e la chiave di volta per non appesantire l’attuale fase negativa sta nel concentrare le risorse disponibili su quelle misure che maggiormente promuovono la ripresa economica
Un attento osservatore dell’evoluzione della nostra economia non dovrebbe trovare niente di sorprendente negli ultimi dati che indicano tendenze di breve periodo tutt’altro che soddisfacenti. Vi era, invece, da meravigliarsi per quanti vedevano nella resilienza della crescita nel primo trimestre dell’anno il segno che il sistema economico mostrava una capacità di espansione pur in un contesto economico-finanziario internazionale sfavorevole. A fugare questa impressione basta la sfilza di cifre dall’interno e dall’estero che sono state diffuse nell’ultima settimana e che obbligano le autorità economiche a rivedere i loro piani di manovra economica, ovvero i progetti per la legge di bilancio per il 2024.
Il quadro internazionale pesa non poco sull’andamento economico del Paese. Nei giorni scorsi, prima sono usciti gli indicatori sull’andamento dell’economia americana, che hanno evidenziato un graduale rallentamento nel secondo trimestre, ma sempre un’espansione reale attorno al 2% su base annua. Sebbene rivista al ribasso dal 2,4% di luglio al 2,1% di fine agosto, il suo distacco rispetto a quella dell’Eurozona, arenata in uno 0,6% (depurato da fattori stagionali), dà l’immagine di un deciso contrasto tra l’area d’oltreoceano, che mantiene un certo slancio malgrado il deciso freno monetario della Federal Reserve, e quella dell’Euro, che soffre per il venir meno degli stimoli monetari degli anni 2020-2021 e il passaggio rapido della Banca centrale europea a un atteggiamento restrittivo.
Due grandi economie che reagiscono differentemente alla nuova stretta monetaria, ma anche rispetto a un certo parallelismo nell’orientamento delle leve di bilancio tra le due sponde dell’oceano. In entrambe le aree si registrano disavanzi e livelli elevati di debito pubblico rispetto al passato decennio e in entrambe sono stati avviati grandi programmi di stimolo agli investimenti e alla spesa privata e pubblica. Negli Stati Uniti i grandi finanziamenti dell’Inflation Reduction Act e gli incentivi al reshoring delle attività manufatturiere in settori strategici si sono aggiunti a un programma di nuove infrastrutture, mentre nell’UE sono stati varati oltre al Programma per la ripresa e resilienza, gli stimoli all’industria dei semiconduttori e alla doppia transizione, energetica e digitale, per importi comparabili su base annua a quelli americani.
Ma l’Europa è esposta più intensamente dell’America agli sconvolgimenti dello shock energetico e di quello della guerra in atto ai suoi confini: il rincaro petrolifero e le difficoltà di approvvigionamento sono risultati più severi, le normative per la riduzione dei gas serra più stringenti e più arduo il riposizionarsi su mercati alternativi a quelli russo e ucraino. Altrettanto importanti si dimostrano altri fattori distintivi, sia la comparativamente maggiore vivacità dello spirito imprenditoriale americano nell’accettare i rischi di nuove intraprese e nel riadattare le sue attività al mutare dei mercati, sia il minore peso della burocrazia e della regolamentazione nella realizzazione di grandi progetti, sia inoltre la maggior propensione alla ricerca e innovazione.
Sulle prospettive economiche dell’Unione europea pesa soprattutto il ritardo nello spegnere le tensioni inflazionistiche dovute ai rincari petroliferi e assecondate dall’abbondante liquidità creata per contrastare la recessione del 2020. I freni della BCE sono stati attivati più tardi della Fed nella convinzione che la fiammata dei prezzi fosse temporanea e che, essendo innescata dall’esterno da distorsioni straordinarie dal lato dell’offerta più che dall’eccesso di domanda, si sarebbe spenta in tempi non lunghi. In realtà, l’esperienza dei precedenti shock di offerta aveva indicato che bisognava agire con tempestività per attenuare le spinte secondarie alla propagazione dei rincari mediante un rallentamento della domanda. Pertanto, nell’attuale fase l’Eurozona si trova con un’inflazione in discesa ma più alta di quella americana, anche nelle componenti al netto di energia e alimentari non lavorati, e con attese di nuovi rialzi del costo del denaro in autunno.
Sullo sfondo di un’economia europea con la Germania e il Regno Unito in stagnazione o recessione, la Francia appena in lieve espansione, i Paesi membri dell’Europa orientale in frenata per il conflitto alle frontiere, l’inflazione media dell’area Euro ancora più di 3 punti percentuali al di sopra dell’obiettivo di stabilità dopo più di un anno di rialzi dai tassi d’interesse e i prezzi energetici in ripresa, quali fattori avrebbero giustificato l’opinione che l’economia italiana si sarebbe distinta arrivando a crescere più delle altre, perfino superando l’1% annuo programmato nel Def? Chiaramente un’opinione che ha più del desiderabile che del reale.
Si sosteneva che l’attuazione degli investimenti del Pnrr in un ambiente reso più favorevole dalle riforme della burocrazia e dei mercati, nonché dai generosi aiuti ai redditi delle famiglie meno abbienti, alle costruzioni e alla sanità, avrebbe fornito un impulso insolito. I dati del secondo trimestre pongono fine nell’immediato a queste aspettative perché attestano un ripiegamento della produzione rispetto al primo trimestre e del Pil tendenziale allo 0,4% dallo 0,6% del primo trimestre, collocandosi sotto la media dell’area nel trimestre (0,6%).
Il cedimento della produzione reale su base destagionalizzata è risultato generalizzato a tutti i settori, compresi i servizi sebbene in misura lieve, ed è riconducibile principalmente alla domanda su più versanti. Riguarda le esportazioni (-0,4%) come era prevedibile, ma principalmente gli investimenti fissi, specialmente in fabbricati (-3,8%) e abitazioni (-3,4%), toccando in misura inferiore la spesa pubblica (-1,6%), mentre stabili i consumi delle famiglie con spunti positivi nella spesa per beni durevoli (0,7%) e i servizi (2,4%).
In contrasto con il ripiegamento di domanda e produzione, i redditi da lavoro dipendente nei principali settori sono lievitati dello 0,8%, che lascia supporre che ci sia stata una resistenza a spendere nel generale clima di incertezza. Non va tralasciato che sul piano occupazionale soltanto a luglio si evidenziava un inizio di calo occupazionale a dimostrazione del ritardo che accompagna solitamente l’evoluzione del lavoro rispetto alla congiuntura mensile. L’andamento nella prima metà dell’anno, invece, era stato positivo, con incrementi inconsueti del tasso di occupazione complessivo e per i comparti più vulnerabili delle donne e dei giovani.
Quali fattori sono mancati nel sospingere la crescita e quali le prospettive? La carenza più evidente si avverte nell’effetto dell’attuazione del Pnrr su cui si appuntavano molte speranze. Le opere sono in ritardo su diversi progetti e le poche riforme avviate non incidono abbastanza nel risvegliare le iniziative imprenditoriali e la propensione al lavoro. L’apertura dei cantieri, benché accelerata sotto il profilo delle procedure e autorizzazioni, richiede ancora almeno sei mesi per avviarsi e si scontra con le difficoltà nel reperimento di maestranze qualificate e con i rincari diffusi. Gli esempi degli ostacoli per la costruzione degli asili nido e degli alloggi per studenti sono molto indicativi di un altro genere di difficoltà sul piano della gestione della Pubblica amministrazione. Il settore manifatturiero risente della bassa congiuntura nei tradizionali mercati di sbocco e della difficoltà di espandersi in altri mercati in tempi brevi. L’impulso degli insostenibili bonus edilizi è venuto a termine con ripercussioni prevedibili sulla congiuntura. Ha fatto venir meno il principale traino della crescita dell’ultimo biennio, e di riflesso obbliga a rivedere le ottimistiche analisi sul ritrovato slancio dell’economia.
Il quadro congiunturale è reso particolarmente arduo per il governo dalla contrapposizione tra esigenze contrastanti e vincoli ineludibili. In primo piano stanno la persistente diffusione dei rincari e la grande sensibilità dei prezzi interni alla ripresa delle quotazioni dell’energia sui mercati mondiali. I prezzi al consumo avanzano ancora a ritmi superiori alla media dell’area, ma auspicabilmente dovrebbero risentire del calo di quelli industriali che ha raggiunto a luglio il 10,2% su base annua. Allo stesso tempo, le pressioni per nuovi interventi per spese sociali (pensioni, recupero del potere di acquisto dei salari e detassazioni di redditi) per un importo di circa 30 miliardi aggiuntivi si sono fatte più intense, mostrando indifferenza verso lo stato precario dei conti pubblici e la ristrettezza dei margini di manovra.
Tra i vincoli, sul fronte finanziario domina la stretta monetaria della Banca centrale europea, che non sembra disposta ad allentarla dopo il rimbalzo dell’inflazione a luglio in Germania, Francia, Spagna e altri Paesi. L’effetto si avverte sul costo del denaro, che frena gli investimenti e il credito al settore privato, e incrementa l’onere per il servizio di un debito pubblico, attestato da un triennio su livelli particolarmente gravosi (nell’ordine del 140% del prodotto interno lordo). L’alta inflazione tende, peraltro, a erodere il suo valore reale e ad attenuare il peso sul bilancio pubblico per via del gonfiamento nominale delle entrate. Su debito e spesa pubblica nel 2024 pende, a ogni modo, l’incertezza sul vincolo del Patto di Stabilità che, se non viene modificato, porterà alla riduzione del disavanzo di bilancio sotto il 3% del prodotto interno lordo e a frenare l’ascesa della spesa primaria netta entro l’1,3%. Sarebbe una correzione consistente rispetto al 3,7% e al 141,4% programmati nel Def rispettivamente per disavanzo e debito nel 2024. La riforma proposta dalla Commissione europea, peraltro, non riscuote il consenso di tutti i membri, né può dirsi permissiva verso i propositi di spesa del governo. L’accordo, se si troverà entro l’anno, sarà un fine bilanciamento tra riequilibrio di bilancio e gradualità della restrizione.
Gli spazi di bilancio in ogni caso sono molto stretti e la chiave di volta per non appesantire l’attuale fase negativa sta nel concentrare le risorse disponibili su quelle misure che maggiormente promuovono la ripresa economica. In breve, sono poco fruttuosi in chiave congiunturale nuovi sostegni assistenziali, o alleggerimenti del peso fiscale che non si traducono in spese produttive di crescita. Non bisogna neanche dare una lettura del tutto pessimistica ai dati dell’ultimo trimestre perché, seppure prevedibili, non sono sufficienti a esprimere un segnale incontrovertibile sulle linee di tendenza nel prossimo anno. Ma certamente vanno considerati come un richiamo forte a restringere gli interventi pubblici su pochi assi, ovvero attuare rapidamente le opere del Pnrr, incentivare gli investimenti strategici, quali il digitale, facilitare la creazione di occupazione sostenibile e snellire il sistema burocratico-amministrativo.