Conversazione con l’ex ministro e presidente della Fondazione Magna Carta: “In Europa, da un certo tempo in poi, la sovranità è uscita dall’ambito degli Stati-nazione ma non ci sono state istituzioni in grado di recepirla. Sicché si è come vaporizzata. Vannacci? Quel libro certo non è stato scritto per aiutare chi vorrebbe rappresentare oggi i conservatori al governo”
C’è stato un europeismo che ha guardato alla storia e un europeismo che invece è riuscito a cancellare la storia per costruirne una nuova, tutta proiettata nel futuro. Questa la ragione per la quale le radici giudaico-cristiane sono state combattute. Parte da qui la riflessione che il presidente della Fondazione Magna Carta, l’ex ministro Gaetano Quagliarello, affida a Formiche.net dopo il dibattito avviato da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera a proposito di natura e storia.
Galli della Loggia ha scritto che, a differenza del passato, oggi una posizione conservatrice ha un vantaggio importante: davanti a sé, infatti, essa non ha come una volta l’illuminismo, il liberalismo o il socialismo, ma un generico «progressismo» basato sul banale «liberi tutti». Ha ragione?
Per me ha ragione. Questa condizione esiste da quando le ideologie sono andate in crisi. Il generico progressismo, infatti, in un altro tempo si chiamava ‘positivismo’ che nel senso comune è coinciso con le ‘sorti progressive della storia’. Esso ha nutrito e aiutato la diffusione di sistemi ideologici più complessi e meno generici. In Italia, in particolare, si è coniugato con il socialismo del quale è stato quella che, in termini marxiani, potrebbe indicarsi come “una sovrastruttura”. Cosicché, quando la struttura dell’ideologia è crollata è rimasta soltanto, e nuda, la sovrastruttura.
Perché il progressismo ha scelto di combattere la natura e come il conservatorismo se ne può fare garante?
Galli della Loggia, in realtà, segnala una doppia avversione del progressismo: nei confronti della natura e della storia. Le due contrarietà sono strettamente connesse. Ci si rende conto di questo analizzando, ad esempio, l’approccio alla questione europea, che non casualmente è diventato un cleavage della lotta politica contemporanea. L’Europa dei progressisti non è unicamente una necessità che affonda le sue radici nella storia. È sopratutto il tentativo di costruire una nuova identità del cittadino europeo, che diviene portatore di diritti in grado di generare nuovi diritti, nella convinzione che possa esistere una libertà senza limiti e senza vincoli. È un approccio assai differente – per certi versi antitetico – da quello dei Padri dell’Europa che, invece, sentivano innanzitutto la necessità di ricostruire quelle radici comuni che erano sono state proprie del Vecchio Continente sin dal Sacro Romano Impero, che avevano resistito fino all’Ottocento, per poi essere spazzate via dalla Prima guerra mondiale. Per questa ragione i primi europeisti cristiani – De Gasperi, Schuman e Adenauer – guardavano alla storia.
Ovvero?
Il loro problema era ritessere l’ordito che era stato distrutto, all’interno del quale contenere la rinascita di nuove nazioni democratiche. Il loro approccio era antitetico a quello di chi oggi coltiva un’altra idea di Europa, basata sul sogno utopico del superamento degli Stati nazione e sulla costruzione di una nuova identità per stabilire i diritti di un uomo nuovo. C’è stato, cioè, un europeismo che ha guardato alla storia e ha valorizzato l’origine e un europeismo che invece cerca di cancellare sia l’origine sia la storia, per proiettare l’uomo verso il futuro. Al centro dell’Europa dei padri c’era la persona e la sua storia che la rendeva parte di una comunità: un tutto (la persona) che si relaziona con un tutto (la comunità). L’europeista progressista, invece, mette al centro l’individuo concepito come una monade in possesso di diritti i quali, a loro volta, generano nuovi diritti nella prospettiva di una liberazione infinita. Chi coltiva questo sogno ha bisogno di cancellare – o quanto meno relativizzare – l’appartenenza e l’origine per proiettare la sua nuova creatura verso un futuro senza storia.
Allargando il ragionamento all’Europa, vede lo scontro da un lato tra il progressismo europeo che lavora per l’obiettivo dell’Unione delle Repubbliche socialiste europee e dall’altro il frangiflutti rappresentato dal conservatorismo con l’obiettivo di un’Europa confederale?
Vedo il rischio, nella costruzione europea, di una forte torsione dirigista e regolatoria, rafforzata dall’indebolimento dalla rappresentanza politica. Sia chiaro: la sovranità assoluta dello Stato è un mito che non esiste nella realtà: né in quella giuridica né tanto meno in quella “materiale”. La sovranità la si intacca persino attraverso accordi bilaterali: nel momento in cui uno Stato firma un accordo impegna, infatti, una parte della propria sovranità. Il problema, però, è che quando la sovranità esce dalla dimensione statuale, essa dovrebbe essere trasferita su un altro livello, che l’accoglie e la regola in modo chiaro e democratico. In Europa, invece, da un certo tempo in poi, la sovranità è uscita dall’ambito degli stati nazione ma non ci sono state istituzioni in grado di recepirla. Sicché si è come evaporizzata. Io credo che ciò sia accaduto perché, da un certo momento in poi, in Europa c’è stata una forte di asimmetria tra l’unificazione economica e l’unificazione politica che sono andate su due binari paralleli senza essere più pensate insieme. Maastricht e la moneta unica necessitavano di una nuova Costituzione. Quest’ultima però non si è prodotta per i motivi storici che sappiamo. Poi, di recente, sono arrivati il Covid e guerra: due salti nel buio propostici dalla storia. E, per me, due grandi occasioni affinché l’Europa ripensi sé stessa.
Due occasioni di riforma?
Sono entrambe delle grandi occasioni affinché l’Europa si ritrovi e ritrovi un’anima. Emergenze di questa portata hanno la forza di distruggere le “bardature programmatiche” e di mettere in crisi il dirigismo. Per affrontarle serve ricordarsi di avere un’anima comune e riscoprirla. Servono, però, anche statisti all’altezza dei problemi che la storia ci presenta. Non è un caso che quando c’era Draghi, l’Europa è apparsa assai più vicina e amica.
Il conservatorismo italiano a che punto è?
Galli Della Loggia mette in evidenza come il progressismo si confini in battaglie identitarie, che io ho definito “sovrastrutturali”, fino al punto da sfidare il senso comune che assai spesso coincide con il buon senso. Il “conservatore” dovrebbe possedere una idea chiara di cosa sia il buon senso e comprenderne le fondamenta culturali. Per questo, dovrebbe impegnarsi a trasferire le sue consapevolezze in atti politici concreti, soprattutto quando è al governo. Il conservatore non ha bisogno di ostentare. È fermo nelle sue convinzioni, possiede le armi culturali per difenderle ma, salvo che non sia costretto, evita il più possibile lo scontro aperto con i suoi avversari su questioni, diciamo così, “sovrastrutturali”. Anche per una ragione tattica. Questo, nella politica contemporanea, non solo è il terreno prediletto dai suoi avversari di sinistra ma è anche il terreno prediletto da quanti si trovano su posizioni che, un pò troppo genericamente, definiamo ‘populiste’. Perché dare spazio a queste posizioni, creando un’alternativa sulla propria destra? Prendiamo il caso Vannacci: difficile immaginare qualcosa di meno conservatore di un Generale che scriva un libro, per di più controverso. E quel libro certo non è stato scritto per aiutare chi vorrebbe rappresentare oggi i conservatori al governo.
@FDepalo