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Le quattro partite dell’Italia in Europa sul bilancio. Scrive Zecchini

Il grosso della partita su aggiustamento e crescita si gioca a Bruxelles, principalmente su quattro filoni negoziali: la modifica del Patto di Stabilità e crescita, il bilancio pluriennale dell’Ue, l’avanzamento verso l’unione dei mercati finanziari, entro cui rientra la ratifica del Mes, e le modifiche del Pnrr. Su ciascuno di questi dossier vedremo se l’Italia otterrà sostegno alle sue posizioni

La Nota di aggiornamento del Def di quest’anno si preannuncia come una tra le più travagliate dell’ultimo decennio per la difficoltà di conciliare le attese di nuovi sostegni a famiglie ed imprese in una fase di stagnazione, se non di recessione economica, e i vincoli di riequilibrio della finanza pubblica che derivano tanto dagli impegni presi con Bruxelles, quanto e con più forza dai mercati finanziari. Dopo un decennio di Leggi di bilancio improntate a sollecitare l’espansione dell’economia con costanti disavanzi e un accumulo di debito pubblico ben oltre l’ammontare annuale di ricchezza prodotta (141,6% del Pil nel 2022), l’attuale governo si trova a dover fare i conti con una dura realtà, che presenta, a parte la cattiva congiuntura attuale, la prospettiva del ritorno all’asfittico zero virgola annuale di crescita e un debito pubblico ai limiti della sostenibilità.

Sparita l’illusione dell’ultimo biennio di un nuovo miracolo economico, perché si conferma l’immagine di una crescita drogata da misure di scarso impatto sulla crescita di medio periodo e al limite dell’irresponsabilità finanziaria e quindi insostenibile. Ora tocca ai governati attuali pagare il costo dell’avventatezza dei governi precedenti. Ma il costo ricadrà in ultima istanza su tutti gli italiani che dovranno accettare misure straordinarie di aggiustamento dei conti pubblici e cambiamenti strutturali nel sistema economico, in grado di innescare un ritorno alla crescita duratura senza nuove dilatazioni del debito pubblico.

Il compito appare immane nel clima pre-elettorale in cui il Paese è piombato ben nove mesi prima delle elezioni per il Parlamento Europeo. Richieste di nuovi aiuti, maggiore assistenza sociale, pensionamento anticipato ed altre agevolazioni piovono sull’esecutivo da più parti, senza tener conto della realtà degli squilibri nei conti pubblici, né del momento economico internazionale. L’economia italiana è, infatti, molto sensibile all’andamento dell’economia europea e degli Usa, che stanno entrambe attraversando una fase di bassa congiuntura. La prima appare in sostanziale stagnazione con un’inflazione che fatica a scendere verso l’obiettivo nonostante la stretta della Bce, mentre la seconda ha solo rallentato il passo ma è ancora in espansione per la resilienza dei consumi e per l’espansione degli investimenti delle imprese, sollecitate dalle nuove agevolazioni fornite dall’amministrazione Biden. Nell’Eurozona pesa la stasi nella crescita della produzione in Germania, che ha importanti ripercussioni negative sulla dinamica dell’industria italiana.

Le proiezioni delle maggiori organizzazioni internazionali forniscono una traccia sul contesto economico esterno di cui la prossima Legge di Bilancio dovrà tener conto. Le proiezioni dell’Ocse relativamente all’andamento del Pil nell’Eurozona sono state riviste al ribasso (0,6% nel ’23 e 1,1% nel ’24), mentre la dinamica dell’inflazione è stimata ancora elevata nel 2023, collocandosi al 5,5% quest’anno e al 3% l’anno prossimo.

Per l’Italia stima un Pil in aumento dello 0,8% in entrambi gli anni e un’inflazione che precipita dal 6,1% quest’anno al 2,5% nel prossimo, senza chiarire i fattori di questa caduta.

Le stime della Commissione europea sono sostanzialmente in linea con quelle dell’Ocse, prevedendo una crescita nel biennio rispettivamente di 0,9% e 0,8% e un’inflazione più tenace, che scenderebbe da 5,9% al 2,9%.

L’Fmi nel luglio scorso dava proiezioni leggermente più favorevoli per la crescita nel 2023 (1,1%) e in riduzione nel 2024 allo 0,9% come quelle delle altre due istituzioni

Dal lato dell’indebitamento netto e del debito, le proiezioni della Commissione europea stimavano al maggio scorso un indebitamento netto nel biennio del 4,5% e 3,7% del Pil, con un rapporto debito/Pil che sebbene scenda al 140,4% nel 2023, rimane stabile nel 2024 al 140,3%.

L’Fmi, invece, sconta per il 2024 una maggiore stretta nell’indebitamento (-3,4% Pil) e di riflesso sul debito (138,8%). In breve, ipotizza una politica di bilancio più orientata all’aggiustamento del deficit.

La recente revisione dei conti nazionali da parte dell’Istat non altera significativamente questo quadro, perché per il 2022 la crescita reale resta invariata al 3,7% e così pure il deficit (8%), ma il debito si sgonfia fino al 141,6% del Pil per effetto della rivalutazione del Pil nominale.

Nel confronto con queste proiezioni, il Quadro Programmatico del Def di aprile scorso appare decisamente ottimista sulle possibilità di crescita e riduzione del deficit e del debito. Per il 2024 mira a una crescita di 1,5% con il contenimento del deficit al 3,7% e del debito netto al 138,7%. Prefigura altresì un margine di manovra rispetto all’andamento tendenziale per ridurre il cuneo fiscale ai lavoratori dipendenti e per alleggerire la tassazione su alcune fasce di reddito intermedio, ipotizzando che questo ampliamento del reddito disponibile possa smorzare le richieste salariali e la rincorsa dei prezzi. Stando alle tendenze attuali, questo margine di manovra sembra sparito, a causa dell’aggravio in atto dei costi del superbonus edilizio e del servizio del debito per l’aumento dei tassi d’interesse sui mercati mobiliari.

Va altresì considerato che se si avverassero le proiezioni dell’Ocse e della Commissione europea si avrebbe una tendenza al rialzo del rapporto debito/Pil in quanto la variazione del Pil nominale risulterebbe inferiore al costo medio del servizio del debito pubblico. In particolare si avrebbe nel 2024 una crescita dello 0,8% insieme a un incremento del deflatore di circa il 2,5%, a fronte di un costo del servizio del debito che tende oltre il tendenziale 4,1% del Pil. Per contrastare questa deriva del debito occorrerebbe mirare a un saldo primario che vada oltre l’obiettivo programmatico fissato allo 0,3% del Pil.

Il quadro della politica di bilancio è reso più complesso dalle difficoltà di domare l’inflazione in Italia come nel resto dell’Eurozona. Il nuovo rincaro dei prezzi petroliferi non lascia prevedere un allentamento della stretta monetaria della Bce nel breve termine, anche in considerazione della necessità di attenuare gli effetti secondari di propagazione dei rincari sui prezzi degli altri prodotti. Una stretta che ha già indotto il sistema bancario a ridurre il credito alle imprese, in specie alle Pmi.

Su questo sfondo il governo ha di fronte diverse alternative principali. Una prima consiste nello scegliere se andare avanti con l’aggiustamento di bilancio, o rallentare il rientro del deficit per fermarlo sopra il livello programmato con l’obiettivo di facilitare la ripresa produttiva.

Una seconda riguarda le possibilità di un soft landing, ovvero di un atterraggio morbido dalla restrizione monetaria, che non comporti una recessione. In altri termini, se sia possibile coniugare aggiustamento e crescita.

Una terza, se mirare o no a stabilizzare il debito pubblico sugli attuali livelli in relazione al Pil, che significa valutare se il livello attuale sia sostenibile per un altro biennio in attesa di un ritorno alla crescita.

Una quarta, se puntare maggiormente sugli investimenti e le riforme contenute nel Pnrr o al di fuori, per avviare una nuova fase di sviluppo consistente e sostenibile negli anni.

Sul primo quesito, l’ultima riunione dell’Eurogruppo ha dato un messaggio chiaro ai governi: bisogna seguire politiche di bilancio prudenti, anche perché il peso del contrasto all’inflazione ricade eccessivamente sulla politica monetaria della Bce, con diffusi effetti negativi sulla congiuntura. Si è obiettato che l’inflazione attuale è da costi e non da domanda, ma si dimentica che bisogna evitare che si traduca in un’inflazione da domanda sostenuta da una rincorsa costi-prezzi-salari. L’inflazione è solo in prima battuta un fenomeno monetario, che va contrastato con un insieme di politiche di breve e di medio periodo.

Sul dilemma aggiustamento o crescita, va ricordato che l’evidenza empirica indica che di norma la disinflazione si accompagna a una recessione o a un forte rallentamento della crescita. Il soft landing è raro e poggia su un fine bilanciamento tra politiche monetaria, di bilancio, strutturale e settoriale, bilanciamento che è difficile realizzare, specialmente nel caso italiano. Deve far riflettere che nel corso dell’ultimo triennio le politiche monetaria e di bilancio adottate dall’Italia, come dal resto della zona Euro, abbiano impresso forti stimoli alla domanda, ma i loro effetti sembrano essersi esauriti quest’anno. Lo stesso Pnrr, giunto al terzo anno di operatività, non ha prodotto finora la crescita attesa a causa di diverse debolezze, ovvero di impianto e per i ritardi e le inefficienze nell’esecuzione.

Sul quesito se l’attuale livello di debito pubblico in rapporto al Pil sia sostenibile ancora per qualche anno, a parte i vincoli posti dal Patto di stabilità, la risposta sta nell’atteggiamento dei mercati finanziari. Nell’ultimo biennio gli investitori hanno dato credito alle politiche italiane perché avevano permesso un ritorno alla crescita e alla ripresa deli investimenti fissi, in ciò sostenuti dall’accomodamento monetario della Bce. Ma nell’attuale fase di stagnazione economica, con una Bce, che non è tenuta a rinnovare i titoli in portafoglio acquistati durante la crisi, la rischiosità del debito italiano è tornata in primo piano nelle valutazioni dei mercati. Il recente allargamento dello spread tra BTP e Bund ne è prova, al pari della sua dimensione superiore a quella della Grecia, paese col maggior rapporto debito-Pil nell’Eurozona.

Benché vi sia la rete di sicurezza della Bce nel caso di “frammentazione” del mercato monetario europeo, ovvero di una divaricazione dei tassi italiani dalla media, il costo maggiorato del debito italiano, dovuto al più alto premio per il rischio, sottrae risorse a impieghi più proficui, quali riequilibrare i conti e sostenere l’espansione economica. In ogni caso, seguendo il criterio di Blanchard, in un contesto di bassa crescita del Pil, tassi d’interesse nominali relativamente alti e possibilmente ancora in ascesa, di un servizio del debito che grava sempre più sul bilancio e sul prodotto nazionale, la sostenibilità del debito agli attuali livelli appare sempre dubbiosa e sempre più ostaggio delle valutazioni dei mercati.

Sul ruolo del Pnrr come motore della crescita, è evidente che il programma rappresenta il principale asse su cui il Paese ha impostato la ripresa dello sviluppo economico. Molte sono le debolezze evidenziate nel primo triennio: scarse capacità di attuazione, diversi progetti poco fecondi di crescita economica nel prossimo triennio, riforme che non incidono adeguatamente, frammentazione delle risorse in troppi piccoli progetti e limitate ricadute sulla competitività e sul potenziale produttivo del Paese. Nondimeno, il Pnrr mantiene la sua importanza come principale strumento a disposizione del Paese per tentare di superare la stagnazione economica in un arco di tre o quattro anni. Non vi sono attualmente altri piani di sviluppo di medio periodo che riscuotano il consenso delle forze politiche e della Ue.

Di fronte a scelte così decisive per lo sviluppo, sarebbe opportuno concentrare maggiori risorse di bilancio e finanziarie sui progetti più in grado di sollecitare crescita, innovazione, ricerca e competitività, e su quelli che fanno da traino per gli investimenti privati.

Non vi è di meglio che promuovere l’avanzamento della produttività attraverso l’investimento nelle nuove tecnologie, un maggior sostegno alla ricerca e all’innovazione in ogni settore e l’impulso alla concorrenza sui mercati e alla produttività nel settore pubblico, in cui più frequenti sono le sacche d’inefficienza. Al tempo stesso, va frenata la deriva verso nuove spese assistenziali per il carovita o caroenergia, che ritardano gli inevitabili aggiustamenti di imprese e famiglie rispetto a eventi esogeni al Paese e di lunga durata, come il rincaro dell’energia.

Al tempo stesso, bisogna porre un argine alla componente di spesa, classificata come “protezione sociale”, che in un quindicennio è assurta a quella maggiore e in più forte aumento nella spesa pubblica. Nel 2021 in termini reali ha raggiunto il 44% del totale e il 23% del Prodotto nazionale. Un esempio problematico è dato dal pensionamento anticipato in una società affetta dal declino demografico e dalla limitata disponibilità di forze di lavoro addestrate. Secondo l’ultimo rapporto dell’Inps il 56% delle pensioni sono anticipate rispetto all’età di vecchiaia. Da ultimo, l’Ocse ha presentato una proiezione nel lungo periodo riguardo all’onere da pensioni e sanità dovuto all’invecchiamento della popolazione. Dalle stime risulta che nel periodo 2024-2040 l’Italia si collocherebbe in testa tra i paesi membri per incremento della pressione fiscale dovuta ai due comparti di spesa, raggiungendo il 5,1% del Pil potenziale e superando nettamente quanto previsto per Francia, Usa e Germania.

Ad ogni modo, il grosso della partita su aggiustamento e crescita si gioca a Bruxelles, principalmente su quattro filoni negoziali: la modifica del Patto di Stabilità e Crescita, il bilancio pluriennale dell’Ue, l’avanzamento verso l’unione dei mercati finanziari, entro cui rientra la ratifica del Mes, e le modifiche del Pnrr. Su ciascuno di questi dossier vedremo se l’Italia otterrà sostegno alle sue posizioni.



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