L’aumento delle spese per la Difesa fino al raggiungimento del 2% del Pil è ancora un tema su cui si dibatte, nonostante sia un impegno assunto al massimo livello politico in sede Nato e confermato da tutti i governi che si sono susseguiti in Italia, a prescindere dal colore politico. Airpress ne ha parlato con Michele Nones, vicepresidente dello Iai
Recentemente è tornato al centro del dibattito pubblico il tema dell’aumento delle spese militari fino all’obiettivo deciso in sede Nato del 2% del Pil da dedicare alla difesa. In particolare, le posizioni assunte da una parte dell’arco parlamentare si è detto scettico dell’opportunità di aumentare le spese da destinare alle esigenze militari. Airpress ne ha parlato con Michele Nones, vicepresidente dell’Istituto affari internazionali (Iai).
Quale ritiene sia il cuore della questione?
Credo che discorso sul 2% del Pil da dedicare alla Difesa vada affrontato su due piani diversi: il primo è quello dell’impegno che l’Italia ha sottoscritto, insieme agli altri Paesi, al summit Nato in Galles del 2014 di portare le spese militari due punti percentuali di Pil entro dieci anni (quindi entro il 2024). L’impegno era esplicito e palese, venendo riconfermato in sede europea nel 2018. Inoltre, si è trattato di una decisione presa al massimo livello politico, assunta direttamente di capi di Stato e di governo. Ne consegue che l’aderenza a questa previsione chiama in causa la credibilità dei singoli sistemi-Paese.
Ritiene ci sia un problema di credibilità del nostro Paese?
Bisogna tenere conto, e vale la pena di ricordarlo, che nel corso di questi otto anni, questo impegno è stato continuamente ribadito nelle riunioni a livello dei capi di Stato e di governo, con l’Italia che vedeva succedersi governi con diverse maggioranze politiche. Quindi, colpisce il fatto che, mentre vengono presi impegni formali in sede internazionali, si possa pensa che una volta rientrati in Italia si possa sedersi dall’altro lato pretendendo di poterli non rispettare.
Perché in Italia il raggiungimento dell’obiettivo al 2% è un tema ancora dibattuto a suo parere?
Le motivazioni contro l’aumento delle spese militari ci sono sempre. Queste non riguardano solo l’Italia e non sono legate a una situazione particolare quale quella del nostro Paese: la presenza di altre esigenze, di impegni di carattere civile, sociale, sanitario o scolastico è condivisa da tutti i Paesi, così come tutti hanno vissuto insieme i momenti di crisi economica. Certo, una sola differenza forse l’Italia ce l’ha, cioè il fatto che il nostro Paese ha un debito pubblico molto più alto di altri Stati. D questo punto di vista, quindi, gli altri hanno potuto aumentare le proprie spese in un quadro finanziario più sostenibile, ricorrendo parzialmente a un deficit di bilancio. Questo per l’Italia non è evidentemente possibile, dal momento che siamo già sopra le soglie tollerabili. Per aumentare le spese militari avremmo necessariamente bisogno di distogliere delle risorse da altri settori, ma questa situazione era ben nota a tutti, e non credo che nessuno abbia potuto nutrire dubbi su questa questione.
Si tratta, dunque, di una volontà politica…
I nostri politici quando stanno al governo manifestano le preoccupazioni per la difficoltà di rispettare l’impegno, salvo poi sostenere l’importanza di rispettare l’obiettivo prefissato quando vanno all’opposizione. Una eccezione a questo è rappresentata, oggi, dal Movimento 5 Stelle e da una parte del Pd, nonostante quest’ultimo avesse accettato e sottoscritto l’impegno al 2% quando era al governo. Adesso, nel tentativo di recuperare spazi elettorali, si pone in maniera critica. E questo, mi si lasci dire, manifesta una diffusa immaturità e irresponsabilità di una parte del nostro mondo politico. L’unico modo, e questo vale per tutti i Paesi, che si ha per evitare di ritrovarsi in difficoltà nel rispettare gli impegni assunti in campo internazionale è quello di assumere su queste tematiche un atteggiamento bipartisan. Non farne, dunque, terreno di scontro elettorale (anche se la tentazione può essere forte).
Perché proprio il 2%?
Questo è un problema di carattere tecnico, sul quale credo che vada fatta chiarezza sia nella nostra opinione pubblica, sia nel mondo politico. Le cifre, infatti, sono sempre opinabili. Si è deciso per il 2% perché nel 2014 si è voluto dare un segnale chiaro alla Federazione russa che aveva appena annesso la Crimea, in un momento nel quale la media delle spese per la difesa della maggior parte dei Paesi Nato era intorno al punto e mezzo percentuale (più o meno quella che è adesso la spesa italiana). Il punto era manifestare delle posizioni che sostanzialmente orientavano l’Alleanza verso una cifra superiore a quella che all’epoca veniva investita dalla media della Nato. È abbastanza interessante ricordare che, alla fine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti imposero al Giappone, all’interno della loro costituzione, un tetto alle proprie spese per la difesa fissato all’1%, nella convinzione, e tutti erano concordi, che un Paese che avesse investito solo quella quota non sarebbe mai diventato una potenza militare. Questo lo ricordo per sottolineare il fatto che stiamo parlando del 2%, in fondo appena il doppio di quel limite massimo imposto da Washington a Tokyo quale vincolo per evitare ogni velleità di riarmo. Quindi, non si può sostenere oggi che arrivare al 2% del Pil sia il sintomo di una volontà riarmistica, dal momento che tale traguardo non raggiunge nemmeno il livello sostenuto da alcuni Paesi che sono sì più capaci in campo militare, ma di sicuro non sono in preda a un delirio di riarmo.
Perché il nostro Paese fatica a raggiungere la soglia decisa?
Per quanto riguarda l’Italia, c’è un problema che non va sottovalutato, ed è quello che riguarda la decisione assunta l’anno scorso dal Parlamento di rinviare di dieci anni la prevista riduzione della dimensione delle nostre Forze armate, misura decisa con la riforma di Di Paola nel 2018 e che puntava a contenere la spesa del personale all’interno del bilancio della Difesa per lasciare spazio non solo alle spese di investimento, che comunque si sono sempre mantenute intorno al 30%, ma alle spese di esercizio, che sono quelle destinate a garantire la manutenzione e riparazione dei mezzi e il loro utilizzo per l’addestramento, oltre a coprire i costi per l’addestramento del personale. Ormai, questo capitolo è ridotto a una quota che si aggira tra il 10 e l’11%, un livello assolutamente inaccettabile per avere Forze armate efficienti. Non potendo ridurre la quota di investimenti, perché si deve far fronte al ricambio di intere generazioni di mezzi in servizio, dal campo aeronauti, a quello elicotteristico, navale e terrestre, è evidente che bisognava andare a ridurre la spesa per il personale, che in Italia vale ancora il 60% del bilancio. La decisione di non arrivare, come previsto, a questa riduzione del numero di militari complica la possibilità di poter avere un bilancio più equilibrato aumentando le risorse disponibili.
Ci spieghi…
Bisogna tener conto che, se si vuole avere delle forze armate che siano anche qualitativamente più efficaci, questo vorrà dire che i futuri militari saranno più appetibili anche per il settore civile, soprattutto la parte più legata alla dimensione informatica. La digitalizzazione di tutti i sistemi d’arma vorrà dire che i militari che opereranno queste piattaforme avranno capacità molto ricercate sul mercato. Questo vorrà dire che dovranno essere offerte loro condizioni economiche e sociali migliori di quelle attuali. Quindi, ci si sta avviando verso un generale aumento del costo del personale, a discapito di quelle di esercizio, indispensabili per sostenere l’efficacia delle Forze armate nel loro insieme.
Ci sono poi le esigenze di modernizzazione delle piattaforme in uso presso le Forze armate…
Molti dei sistemi d’arma dell’attuale generazione si stanno avviando rapidamente alla conclusione della loro vita operativa. Dobbiamo quindi modernizzare e approvvigionarci di nuovi sistemi. Ed è il caso per esempio del Leopard, che tuttavia non è un carro di nuova generazione, quanto piuttosto il carro più evoluto oggi disponibile. Ci troveremo quindi nella situazione di dover far fronte da una parte a queste spese, e contemporaneamente dovremo sostenere lo sviluppo dei nuovi programmi per il salto tecnologico generazionale come il Tempest, il Ngcs, e probabilmente il nuovo elicottero da combattimento, così come nuove piattaforme navali e satellitari. Pensare di poter far fronte a tutte queste esigenze senza aumentare i fondi per la Difesa è impossibile. Non si può fare il gioco delle tre carte, spostando continuamente le risorse da una parte all’altra. Siamo giunti al punto in cui tutte queste esigenze richiedono contemporaneamente un finanziamento e l’unica strada percorribile è quella di destinare nuove risorse, sia pure gradualmente, come previsto dal precedente governo. Quindi, dobbiamo puntare ad arrivare al 2% entro il 2028, e non si può ricominciare a rimettere in discussione questa scadenza che, tra l’altro, già supera di quattro o cinque anni quella concordata nel 2014. Ritengo che questa previsione temporale sia quella massima che consenta di dare stabilità all’Italia senza perdere completamente la credibilità rispetto ai nostri partner e alleati.