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Cosa dicono le stime (al ribasso) sul Pil. Polillo mette in guardia la politica

Gli elementi di comparato mostrano un “mal comune” che non può essere considerato un “mezzo gaudio” ma va meditato per comprenderne le cause. L’analisi di Gianfranco Polillo

Doccia fredda sulla congiuntura italiana. L’Istat è stata costretta a rivedere a ribasso le stime di crescita del Pil per il secondo semestre. Quelle preliminari indicavano un meno 0,3 percento, corretto a meno 0,4. In conseguenza della revisione, “l’acquisito” – ossia il tasso di crescita ipotetico di fine anno, nell’ipotesi in cui i prossimi due trimestri fossero “piatti” – è stato calcolato allo 0,7 per cento. Solo tre mesi fa era stato quotato allo 0,9 per cento.

Il cambiamento è significativo, non tanto per i valori in sé, quanto per il brusco cambiamento di prospettiva. Ancora lo scorso luglio, la Banca d’Italia, nelle sue “Proiezioni macroeconomiche per l’Italia” indicava una crescita, per l’anno in corso, pari all’1,3 per cento. Ugualmente sostenute le previsioni degli altri organismi internazionali. Per l’Ocse (giugno) la previsione era dell’1,2 per cento; per il Fondo monetario internazionale (maggio/aprile) dell’1,1; per la Commissione europea (maggio) dell’1,2 per cento.

Alla luce di questi dati, sorprendono quindi i “consigli non richiesti” dati da Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle, a Giorgia Meloni, presidente del Consiglio: “Per il bene dell’Italia smettere di dare sempre la colpa a qualcun altro, piuttosto rimboccarsi le maniche per rimediare. Fino ad oggi si è vantata per la crescita del Pil, che in realtà è letteralmente crollato a causa dell’inerzia e dell’incapacità del Governo”. Per la verità, se c’è qualcuno da rimproverare, sono diversi i soggetti ai quali rivolgersi. La colpa della presidente, se tale si può definire, è quella di essersi fidata dell’eccellenza degli economisti a livello internazionale. Conte, come ha già dimostrato, avrebbe fatto meglio. Ma i conti finali si faranno solo alla fine dell’anno.

L’uso politico dei dati della congiuntura ha fatto perdere di vista un dato più generale. “Nel secondo trimestre”, nota ancora l’Istat, “il Pil è cresciuto in termini congiunturali dello 0,6% negli Stati Uniti, dello 0,5% in Francia ed è rimasto stabile in Germania”. Elementi che sembrerebbero confermare una sorta di “anomalia” italiana, tra i grandi partner europei. Sennonché, secondo l’Insee – l’istituto statistico francese – “l’acquisito” per l’anno in corso sarebbe pari allo O,8 per cento. Quasi identico a quello italiano. Ciò che distinguerebbe allora i due Paesi non sarebbe quindi la maggiore crescita, ma solo una diversa scansione temporale. Mentre per quanto riguarda la Germania, con un Pil in flessione tendenziale (meno 0,1 per cento) le preoccupazioni sono ben maggiori.

Gli elementi di comparato mostrano quindi un “mal comune” che, ovviamente, non può essere considerato un “mezzo gaudio”, ma che va attentamente meditato per comprendere le cause più profonde che lo hanno determinato. L’analisi non può includere gli Stati Uniti. Troppo diversa è la realtà economica e finanziaria di quel Paese, per tentare un confronto. Lì, l’inflazione è prevalentemente da “domanda”, mentre nel Vecchio Continente domina quella da “costi”, legata agli aumenti intervenuti nei prezzi dell’energia. Ne consegue che mentre oltre Atlantico la stretta monetaria può essere giustificata, lo è molto meno dalle parti di Francoforte e dintorni.

In Europa questo tipo di inflazione è solo il sintomo di un male più profondo. Negli anni passati, il rapporto privilegiato con la Russia aveva consentito alla Germania di avere risorse energetiche a basso prezzo. Su questa base e grazie alla sua lunga tradizione industriale, la Germania era divenuta l’hub manifatturiero dell’intero continente. La Cina, a sua volta, il suo partner privilegiato, assetato com’era di “beni capitali”, per procedere lungo la via dello sviluppo. Gli altri Paesi europei, chi più chi meno, erano legati all’economia tedesca, che aveva un ruolo traente per l’intera zona. Il risultato ultimo di questo modo di procedere aveva portato a un rilevante e sistematico attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti dell’intera Unione Europea. Al quale la Germania, da sola, contribuiva per circa il 70 per cento.

Il sistema reggeva, male ma reggeva, grazie a un tacito compromesso. Alla Germania veniva consentito di esportare più del dovuto, spesso in aperta violazione dei vincoli previsti dalle regole sugli squilibri macroeconomici. In compenso essa contribuiva, con i trasferimenti impliciti, a finanziare i Paesi con deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Il che consentiva a questi ultimi di alzare l’asticella del deficit dei conti pubblici, rispetto ai tradizionali punti di equilibrio del quadro macroeconomico. C’era poi un’uscita di sicurezza. Se si eccedeva, come nel caso della Grecia, della Spagna, o della stessa Italia, ecco allora l’intervento correttivo, nel segno dell’austerity.

L’aumento dei costi energetici, dovuti alla guerra scatenata da Vladimir Putin da un lato, il forte rallentamento dell’economia cinese dall’altro, hanno fatto venir meno i due pilastri sui quali era stato costruito quella storia di relativo successo. Colpita la Germania, sono state trascinate anche le altre economie del Continente. Ovviamente non tutte nella stessa misura, né con gli stessi tempi. Ma il contagio è risultato pernicioso. Con l’Italia che soffre più della Francia e della Spagna, a causa della maggiore estensione della sua manifattura. Ma meno della stessa Germania, avendo relazioni commerciali internazionali più ampie e diversificate.

Si vedrà nei prossimi mesi come evolverà questa complessa congiuntura. Molto dipenderà dal quadro internazionale e dalle decisioni della Banca centrale europea che, come si è visto, hanno già colpito sia gli investimenti che i consumi delle famiglie, a causa dagli aumenti più che consistenti delle rate dei mutui bancari. Nel brevissimo periodo, preoccupa l’avvenuta ricostruzione delle scorte che ha contribuito per lo 0,3 per cento a tenere su il reddito. E che presenterà il conto, in negativo, nel trimestre successivo, se non vi sarà una ripresa della domanda interna o internazionale.

Nel medio andare, invece, i cambiamenti sembrano essere più profondi. Dal 2013 in poi l’Italia aveva recuperato una posizione importante nel commercio internazionale. Dalla metà del 2021, invece, si era verificato una forte inversione di tendenza. Con il picco della caduta alla fine del 2022. Poi una fin troppo lenta ripresa. In questo spazio temporale di 18 mesi si sono perduti circa 110 miliardi di euro di valuta, secondo una vecchia terminologia, che comunque rende l’idea. Il passaggio da un forte attivo di circa 80 miliardi, ad un passivo di 30. Situazione che dovrebbe rappresentare un monito per tutte le forze politiche italiane, se non fossero così impegnate nell’ammirazione del proprio ombelico.


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