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Vescovi ucraini dal papa, capirsi tra propagande, imperi e bombe

Le incomprensioni sorte tra Ucraina e Vaticano dall’inizio della guerra, hanno spiegato i vescovi, vengono utilizzate dalla propaganda russa per giustificare e sostenere l’ideologia assassina del “mondo russo”, quindi “i fedeli della nostra Chiesa sono sensibili ad ogni parola di Sua Santità come voce universale di verità e di giustizia”. La riflessione di Riccardo Cristiano sull’udienza privata di papa Francesco ai vescovi del Sinodo della Chiesa greco-cattolica ucraina (Ugcc)

“Un colloquio franco e sincero”. Sono queste le parole prescelte dall’arcivescovo maggiore di Kyiv, Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, per presentare, a caldo, il colloquio appena conclusosi tra lui, gli altri vescovi del sinodo della Chiesa greco-cattolica di Ucraina e papa Francesco.

Tutti sanno che il termine “franco” in diplomazia indica un colloquio non facile, e quindi quel “sincero” ammorbidisce il giudizio complesso, indicando la possibilità di una vicendevole comprensione. Ma che non sarebbe stato un incontro facile era annunciato dalle dichiarazioni con cui lo stesso Scevchuk aveva commentato quanto detto dal papa prima di partire per la Mongolia ai giovani russi, quando gli aveva raccomandato di ricordarsi di essere gli eredi della cultura della Grande Madre Russia, citando anche Pietro il grande e Caterina II.

Parole che erano state prese come un anomalo apprezzamento delle politiche di due zar che sono stati anche protagonisti dell’imperialismo russo. Tornando dalla Mongolia il papa si è spiegato, dicendo con trasparenza, candore e quindi in modo convincente: “Forse non è stato felice, ma parlando della grande Russia nel senso forse non tanto geografico, ma culturale, mi è venuto in mente quello che ci hanno insegnato a scuola: Pietro I, Caterina II. Ed è venuto questo (elemento) che forse non è proprio giusto. Non so. Che gli storici dicano. Quello che ho detto ai giovani russi è di farsi carico della propria eredità, che vuol dire non comprarla altrove. Prendersi la propria eredità. E quale eredità ha dato la grande Russia: la cultura russa è di una bellezza, di una profondità molto grande: e non va cancellata per problemi politici politici.Avete avuto anni bui in Russia, ma l’eredità sempre è rimasta così, alla mano. Poi le parla dell’imperialismo. E io non pensavo all’imperialismo quando ho detto quello, ho parlato della cultura, e la trasmissione della cultura non è mai imperiale, mai: è sempre dialogare, parlavo di questo”.

Qui Francesco ha evidenziato un dato oggettivo: la forza della sua comunicazione spontanea, aperta, sovente a braccio, arriva a destinazione, non è imbalsamata. Ma questo se ha degli evidenti vantaggi ha anche dei costi. Espone ai rischi che una lettura precisa, puntuale, in punta di penna delle sue parole spesso consente. Il papa cerca di raggiungere le persone, ma facendolo va incontro ai rischi della spontaneità. Come evidentemente è accaduto in un contesto delicatissimo come quello del rapporto antico tra russi e ucraini, oggi feroce e deformato dall’imperialismo.

Bergoglio, con la schiettezza che lo contraddistingue, ci è tornato, anche parlando con i vescovi ucraini, ai quali ha anticipato di un’ora l’appuntamento per intrattenersi più a lungo con loro e poter parlare con tutti, non solo con Schevchuk. E ha detto: “Di ritorno dalla Mongolia, ho affermato che il vero dolore è quando il patrimonio culturale di un popolo subisce una ‘diluizione’ ed è sottoposto alle manipolazioni da parte di un certo potere statale, a seguito delle quali esso si trasforma in un’ideologia che distrugge e uccide. È una grande tragedia quando tale ideologia si intromette nella Chiesa e sostituisce il Vangelo di Cristo”. Francesco non ha girato intorno alla questione, non ha ridotto la sua portata, aggiungendo: “Il fatto che abbiate dubitato con chi sia il Papa è stato particolarmente doloroso per il popolo ucraino. Voglio assicurarvi della mia solidarietà con voi e di una costante vicinanza orante. Io sono con il popolo ucraino”. Tutto questo è evidentemente autentico, come la sua definizione del popolo ucraino quale “popolo martire”. E allora? Allora Francesco sa benissimo cosa volesse dire Schevchuk usando da parte sua il termine “delusione” davanti ad alcune scelte del papa e del Vaticano.

Il punto è evidente: in una lacerazione come quella causata dal conflitto, l’orientamento prevalente è quello a dividersi, da una parte chi sceglie di sostenere Kyiv, dall’altra chi sceglie di sostenere Mosca. Questo può essere anche normale. Ma presto sono cominciate una serie di incomprensioni, a cominciare dalla scelta, poche ore dopo l’inizio dell’invasione, di recarsi dall’ambasciatore russo. Lo ha ricordato tempo fa lo stesso Schevchuk. Era un atto che voleva aiutare gli ucraini, trovare il modo per parlare con il Cremlino, magari indurlo a un ripiegamento. Ma non è stato capito. Come non è stato capito l’invito in occasione della Pasqua a due amiche, una russa e un’ucraina, a portare insieme la croce. Doveva essere la prima occasione per mostrare al mondo una russa che riconoscendo l’ucraina ne riconosce la sovranità, l’indipendenza, mentre Mosca nega l’esistenza di uno Stato ucraino sovrano. Anche allora non venne capito, fu compreso come un’equiparazione del dolore delle due donne. Ancor più difficile deve essere stato comprendere perché il papa non sia andato a Kyiv, subordinando quella visita a una visita a Mosca, che Putin non ha mai consentito. Non è stata capita, questa scelta, come la ricerca di una posizione che gli consentisse di ottenere qualcosa per la pace dal presidente russo. “Il papa non fa passerelle”, commentarono autorevoli esponenti vicini a Francesco per far capire il senso della decisione. Forse si potrebbe capirlo così: “E dopo che andasse a Kyiv cosa cambierebbe nella realtà per gli ucraini?”.

Qui emerge una consapevolezza: il potere della Santa Sede non sono le divisioni di cui chiedeva quante fossero Stalin, ma la moral suasion. Francesco voleva esercitare una moral suasion su Mosca, ma non sembra che sia stato capito. In un mondo polarizzato, radicalizzato, non è stato capito neanche da noi, qui in Occidente, dove molti lo hanno descritto come filo-russo. Anche in alcuni ambienti “pacifisti”, ai quali Francesco non ha mai concesso la contrarietà alla legittima difesa dall’aggressore: “chi difende ama”, ha detto. Ma nella polarizzazione, radicalizzazione e nella stessa capacità, almeno secondo un’intervista recente del metropolita maggiore di Kyiv, Schevchuk, di penetrazione di Mosca in ambienti cattolici, i tentativi di Francesco di costruire una via d’uscita dal conflitto sono stati vieppiù presentati come filo-russi, non come filo-ucraina, pur essendo l’unico leader globale che ha settimanalmente definito “martoriata” l’Ucraina, un’espressione che non può essere stata scelta per caso. “La martoriata Ucraina” è certamente martoriata dall’esercito russo. Ma la richiesta di biasimare per nome Vladimir Putin è rimbalzata, frequente, quasi che nella radicalizzazione globale anche il papa dovesse radicalizzarsi, condannare, dire di più.

L’importanza dell’incontro odierno non sta solo in un chiarimento, ma anche nell’offerta di una comprensione. Infatti nel comunicato della parte Ucraina si legge che alcune dichiarazioni e gesti “della Santa Sede e di Sua Santità sono dolorosi e difficili per il popolo ucraino, che attualmente sanguina nella lotta per la propria dignità e indipendenza”. Le incomprensioni sorte tra Ucraina e Vaticano dall’inizio della guerra su vasta scala, spiegano i vescovi, vengono utilizzate dalla propaganda russa per giustificare e sostenere l’ideologia assassina del “Mondo russo”, quindi “i fedeli della nostra Chiesa sono sensibili ad ogni parola di Sua Santità come voce universale di verità e di giustizia”. È questa ideologia del mondo russo, per la quale in Russia, Bielorussia, Ucraina esisterebbe un capo, una chiesa e un popolo, che Francesco ha sfidato con l’invito alla diplomazia, al “reciproco” riconoscimento. Sarà importante nei prossimi giorni tentare di capire se ci sia riuscito, anche grazie all’ammissione di una sua espressione non felice.

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