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Un referendum contro il ddl Calderoli per unire il centrosinistra. La proposta di Ricci

Il contrasto al ddl Calderoli sull’autonomia differenziata sarà una sfida unificante per l’opposizione, anche perché troverà molte consonanze nella società. E non solo in quella del Meridione. Il coordinatore dei sindaci dem fa quadrato e, dopo l’intesa sul salario minimo con le altre forze politiche di centrosinistra, lancia l’idea di un comitato referendario

Fermare la “divisione del Paese” con un “comitato referendario” per bloccare la proposta sull’autonomia differenziata che porta il nome del ministro Roberto Calderoli. Una battaglia leghista da sempre, una “bandiera” per il centrodestra. O per lo meno per una parte di esso. E invece è di Matteo Ricci, sindaco di Pesaro e coordinatore dei sindaci dem, l’idea di un’iniziativa che miri ad arrestare il processo di riforma. Perché, dice a Formiche.net il primo cittadino marchigiano e presidente di Ali, con questo ddl “si ledono i principi della Costituzione mettendo a rischio tutti i diritti sociali più sensibili e l’intento dello stesso articolo 119”.

Sindaco Ricci, durante la manifestazione della Cgil si è scagliato contro il ddl Calderoli, lanciando l’idea di un comitato referendario. Pensa che questa proposta possa trovare una sponda anche in altri partiti di opposizione?

Certo. L’opposizione già contrasta il ddl Calderoli. Credo che sarà una sfida unificante, anche perché troverà molte consonanze nella società. E non solo in quella del Meridione. Sento ovunque preoccupazione. Pochi ormai anche al Nord pensano che l’autonomia differenziata sia una soluzione ai problemi cronici dell’economia e della qualità dei servizi pubblici. Le priorità di un Paese in difficoltà sono altre. E serve più giustizia fiscale e non il contrario. Ce lo ha detto chiaro anche l’Unione europea.

Lei parla espressamente di “divisione del Paese”. Quali sono gli elementi del ddl che la preoccupano?

Si ledono i principi della Costituzione mettendo a rischio tutti i diritti sociali più sensibili e l’intento dello stesso articolo 119. Alcuni territori, quelli più ricchi, avrebbero in più ingenti risorse fiscali proprie, sottratte agli introiti dello Stato, da usare per integrare il finanziamento standard delle funzioni aggiuntive. Così coprirebbero inefficienze o potrebbero garantire nuove prestazioni senza affidarsi allo sforzo fiscale. Si deresponsabilizzerebbero queste regioni e la frattura che soffriamo si farebbe ancora più profonda. Invece il Paese ha necessità d’essere ricucito e le disuguaglianze diminuite.

Da più parti è emersa la perplessità sulla tenuta dei Lea. Ritiene che in effetti, a seguito dell’eventuale approvazione del ddl, possano emergere problemi sulle garanzie di erogazione dei servizi ai cittadini?

La procedura per la definizione dei livelli essenziali non prevede alcuna predeterminazione politica degli obiettivi di uguaglianza sostanziale cui Lea e Lep sono funzionali. Non stanzia le risorse aggiuntive necessarie a garantirli. Definiti in questo modo, sono completamente snaturati. Perché non garantiranno l’insieme dei servizi e degli interventi pubblici necessari ad assicurare, in modo omogeneo e uniforme, i diritti sulla base dei bisogni e a prescindere dalla capacità fiscale di un territorio. Così, ripeto, si avrebbe una cristallizzazione delle disuguaglianze.

Anche nel governo ci sono diverse sensibilità su questa riforma. Anche una porzione significativa dei giuristi incaricati dal ministro per studiare il ddl ha abbandonato la “barca” nel luglio scorso. Puntate, con questa iniziativa, ad aprire una breccia nella maggioranza?

Ci sono molte contrarietà anche nella maggioranza. Certo, le critiche, molto fondate, sono venute dalle personalità più autorevoli in fatto di riforme istituzionali che sono uscite dal gruppo di lavoro promosso dal ministro. Poi da istituzioni primarie quali la Banca d’Italia e gli Uffici studi del Parlamento. Da think tank autorevoli come la Svimez. Dai vescovi italiani, come dalla Confindustria e dai sindacati. Il parlamento sarebbe esautorato, come gli amministratori locali, e questo è un punto critico. E comunque, se prevalesse un cieco ricatto di maggioranza, come ho detto in piazza San Giovanni, c’è da promuovere il referendum.

Sul salario minimo tutte le forze di opposizione, eccetto Italia Viva, hanno trovato una quadra. Questa proposta ha l’ambizione di creare ulteriori punti di convergenza nel centrosinistra?

Si sta lavorando per una posizione unitaria sulla difesa del sistema sanitario pubblico, che è una vera e propria emergenza. Il governo definanzia il sistema, accentuandone la crisi e favorendo l’assistenza privata. Ma questa è una scelta che colpisce una larga maggioranza dei cittadini. L’opposizione deve parlare chiaro e rendere gli italiani consapevoli. È la strada per ritrovare fiducia e consenso, per parlare anche a chi ha smesso di votare e invece ha così bisogno di una politica progressista.



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