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L’Europa è minacciata da una nuova ondata di terrorismo? L’analisi di Bertolotti

Quella attuale è una minaccia collegata ai conflitti nel Medio Oriente, in Africa e alla violenza dell’islam radicale. Parliamo di una galassia jihadista frammentata e caratterizzata da diverse ideologie e approcci pratici, tanto da indurre una riflessione sul concetto di terrorismo contemporaneo che si impone come fenomeno sociale molto diverso dai terrorismi che lo hanno preceduto. L’analisi di Claudio Bertolotti, direttore di Start Insight

Gli attacchi terroristici di Arras e Bruxelles, come abbiamo avuto modo di riferire nel 4° rapporto sul radicalismo e il Contrasto al terrorismo #ReaCT2023, ci confermano che il terrorismo attuale è una minaccia latente pronta a rispondere all’appello dell’ideologia jihadista dei gruppi radicali permanentemente in guerra con l’Occidente e i suoi valori.

Ed è una minaccia collegata ai conflitti nel Medio Oriente, in Africa e alla violenza dell’islam radicale, così come alla ricerca di identità associata all’opposizione culturale di una componente non marginale degli immigrati maghrebini di seconda e terza generazione in Europa. E parliamo di una galassia jihadista frammentata e caratterizzata da diverse ideologie e approcci pratici, tanto da indurre una riflessione sul concetto di terrorismo contemporaneo che si impone come fenomeno sociale molto diverso dai terrorismi che lo hanno preceduto.

Tanto da imporre un cambio di paradigma alla stessa definizione di terrorismo, non più da intendere come azione volta ad ottenere risultati politici attraverso la violenza, dunque nelle intenzioni. Bensì come effetto della violenza applicata: è terrorismo nella manifestazione, non nell’organizzazione.

Il terrorismo, evidenzia Santomartino nel suo volume Conoscere e contrastare il jihadismo (panda ed. 2020), “è l’epifenomeno”, la manifestazione violenta di un fatto sociale molto più ampio e molto più preoccupante che è l’ideologia jihadista. E questo, in realtà, vale non soltanto per il terrorismo islamico, ma anche per il terrorismo dell’estrema destra o degli anarchici insurrezionalisti, movimenti collegati tra loro in un rapporto di azione e reazione. All’interno della stessa galassia jihadista, il terrorismo si impone come strumento di lotta, di resistenza e di prevaricazione e lo fa con diversi gradi e modelli di violenza: da quella individuale, a quella organizzata, a quella ispirata e ancora al terrorismo insurrezionale che ben abbiamo conosciuto in Afghanistan e in Iraq.

E proprio il terrorismo insurrezionale afghano, che chi scrive ha avuto modo di osservare da vicino per molti anni, è quello che ha svolto un ruolo determinante nella ripresa di un terrorismo ispirato ed emulativo a livello globale, e in particolare in Africa, che si basa sull’esperienza vittoriosa dei talebani contro l’Occidente. Un’esperienza che, attraverso la retorica jihadista, è sfruttata per dimostrare la bontà e la fondatezza del jihad, e dunque del terrorismo come strumento di lotta, di vittoria, di giustizia. E in questo solco si colloca la ferma volontà del gruppo terrorista Hamas di opporsi all’esistenza stessa di Israele, attraverso la brutalità delle proprie azioni e al disinteresse per la salvaguardia delle stesse popolazioni di Gaza.

E così a svolgere questo ruolo di propulsore ideologico e di coinvolgimento di massa, sono oggi le dinamiche conflittuali in Medioriente e il terrorismo mediaticamente amplificato di Hamas; da questo discendono le manifestazioni emulative di violenza che il terrorismo di Hamas ai danni di Israele sta provocando in Europa, come ci confermano gli episodi di violenza ispirata dal jihadismo, marginali e dall’esito fallimentare o comunque contenuto, che sono avvenuti in questi giorni a Milano, Torino, sulla scia dei più rilevanti attacchi in Francia e Belgio.

L’Europa è minacciata da una nuova ondata di terrorismo?

Il terrorismo jihadista, così come l’abbiamo conosciuto nel corso degli ultimi anni, ha avuto la sua massima espressione di violenza nel periodo 2015-2017, in concomitanza con l’espansione dello Stato islamico in Siria e in Iraq. Anche grazie all’amplificazione massmediatica, lo Stato islamico riuscì ad attirare una serie di reclute, di adepti, ma anche semplicemente a ispirare soggetti che poi colpirono in suo nome, pur senza fare parte dell’organizzazione. Dal 2018, gli attacchi terroristici sono diminuiti e si sono stabilizzati su numeri comunque importanti per l’Europa. Parliamo di 18, 20 attentati all’anno, spesso fallimentari e con una bassa attenzione mediatica. Azioni che non hanno alimentato l’effetto emulativo.

Oggi, al contrario, ci troviamo di nuovo in una situazione simile a quella del 2015-2017: non c’è più lo Stato islamico che si impone mediaticamente, ma c’è la guerra, la contrapposizione fra israeliani e Hamas.

La guerra tra Israele e Hamas è un grande evento che, purtroppo, alimenta la minaccia potenziale – sempre in attesa di essere attivata – di singoli soggetti emulatori, i quali aspirano a essere riconosciuti come mujaheddin ed eventualmente shahid (martiri) imponendo, attraverso la violenza, il messaggio jihadista del “noi contro voi”.

La fabbrica dell’odio – se così possiamo chiamarla – è però sempre rimasta attiva, non si è mai fermata, con riferimento a ciò che abìvviene in un mondo parallelo, quello visìrtuale del Web dove la fabbrica dell’odio non soltanto esiste, ma si consolida lentamente. Un mondo parallelo, nel quale tutto viene inteso e interpretato in maniera assoluta e trasformato in una visione del mondo a senso unico. Chi entra in questa bolla virtuale, alla fine crede di essere portatore di un’istanza di massa contro l’Occidente, che inevitabilmente diventa il nemico da abbattere. Più dei luoghi fisici, cioè più delle moschee e più dei centri sociali di incontro dei radicalizzati, il Web è così diventato da molto tempo il terreno di confronto e di raccolta di informazioni degli estremisti.

Cosa ci dicono i numeri del terrore?

Se guardiamo ai numeri, ci accorgiamo che in questi anni è cresciuto l’intervallo tra un attentato e l’altro, è diminuito il numero complessivo di attentatori così come il numero di attentatori per singolo attacco e, con essi, è diminuita anche l’efficacia delle azioni. In termini semplicistici, possiamo dire che sono molti di più gli attentati che non vanno a segno, quelli cioè che non provocano vittime tra la popolazione civile. E tuttavia, ugualmente questi atti terroristici riescono a ottenere un risultato molto importante di “blocco funzionale” della società: un attentatore che colpisce, anche in modo fallimentare, porta alla chiusura di una strada o di un’area urbana, all’intervento della polizia, alla mobilitazione di mezzi di soccorso e alla momentanea riduzione del servizio sanitario disponibile per la popolazione civile. Insomma, provoca danni che si si possono quantificare in termini economici, costi effettivi per la società.

Cosa non torna dal paragone con il terrore del 205-2017?

A Bruxelles, è stata data molta attenzione a quanto accaduto anche perché il terrorista ha utilizzato un fucile d’assalto. Molti hanno paragonato questa azione ai fatti di Parigi del novembre 2015, ma le due realtà sono molto diverse. In Francia aveva agito un’organizzazione strutturata, coordinata sul terreno, di più unità combattenti. Nella capitale belga, invece, è stato un singolo soggetto a colpire. Il punto è che l’ha fatto con un’arma particolare che ha attirato, in maniera giustamente opportuna ma forse anche spropositata, l’attenzione massmediatica. E lo ha fatto in un momento particolare, per cui tutto è stato contestualizzato alla guerra fra Israele e Hamas. Ma se vediamo nel dettaglio, il tunisino che ha colpito a Bruxelles ha rivendicato l’azione in nome dell’Isis e non in nome di Hamas.


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