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Cosa c’è dietro la telefonata tra bin Salman e Raisi

In mezzo alla più grande crisi militare e psico-sociale che coinvolge Israele dai tempi della guerra dello Yom Kippur, il sovrano saudita parla con il presidente iraniano. Secondo Cafiero (Gulf State An-/Georgetown), Riad vuole evitare di perdere il contatto con Teheran mentre teme che la reazione israeliana allarghi il conflitto alla regione

Come logico, l’attacco di Hamas contro Israele e la risposta conseguente stanno creando riflessi nelle dinamiche politiche mediorientali. Più sorprendente è che Mohammed bin Salman, primo ministro ed erede al trono saudita, abbia colto la situazione come occasione per un primo, storico contatto telefonico con il presidente iraniano, Ebrahim Raisi. Oppure no, anche questa era attesa all’interno delle dinamiche di distensione fredda nella regione.

Il governo saudita comunica che nella conversazione il sovrano de facto ha espresso la sua “profonda preoccupazione per la terribile situazione umanitaria a Gaza” e “ha sottolineato la ferma posizione del regno nel difendere la causa palestinese”. Non ci sono menzioni a Israele, che precedentemente l’Arabia Saudita aveva definito con la semantica tipica usata dai Paesi arabi, “forze occupanti”, in una dichiarazione in cui chiedeva di evitare l’escalation.

Israele e Arabia Saudita hanno avviato uno storico dialogo per la normalizzazione dei rapporti, che secondo fonti del dipartimento di Stato americano – impegnato nella mediazione – non sarebbe stato interrotto dall’accaduto. Contemporaneamente, Raid ha momentaneamente risolto le dispute diplomatiche con Teheran attraverso la piattaforma diplomatica offerta da Pechino non più di qualche mese fa.

È stato un passaggio storico quello cinese, visto che i due Paesi interpretano una doppia dimensione – ideologica e geopolitica – cruciale nella regione: sono i punti di riferimento di sunnismo e sciismo, ma sono anche le due principali potenze militari (e i due attori in grado di esercitare maggiore influenza). È stata una scelta tattica l’appeasement, con i sauditi lanciati in un’operazione di espansione globale e gli iraniani tendenzialmente isolati: i primi preferiscono evitare grane dai nemici, i secondi comprendo di aver bisogno di tutto e tutti.

Gran parte delle distanze restano, ma sulla questione israeliana c’è una sottile linea di fondo: sia il regno che la repubblica islamici sanno che parte della loro popolazione predilige il dialogo intra-islamico che quello con Israele. Le differenze confessionali che hanno diviso il mondo arabo per secoli stanno venendo meno; invece negli ultimi anni sono aumentate sensibilità e percezioni verso un Israele che accresce l’intensità dei soprusi contro la popolazione palestinese.

La causa dei “fratelli” palestinesi è alla base delle discontinutà tra collettività e leadership all’interno dei processi di normalizzazione come gli Accordi di Abramo. Esce chiara in eventi pubblici come i Mondiali di Calcio in Qatar – dove Doha ha anche giocato sull’esporre certe istanze anche per dare un segnale di differenziazione rispetto agli altri Paesi del Golfo, come l’Arabia Saudita, appunto, o gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein che hanno già normalizzato le relazioni con Israele.

Ma perimetrato il contesto, allora: perché adesso? “La leadership saudita vorrebbe che la distensione con la Repubblica islamica rimanesse in piedi”, risponde Giorgio Cafiero, Ceo di Gulf State Analytics, una società basata a Washington che aiuta governi e aziende a decifrare le intricate relazioni nel Golfo Persico. “A questo punto, Riad è estremamente preoccupata di come l’attuale crisi israelo-palestinese possa potenzialmente trasformarsi in un conflitto molto più ampio che coinvolge diversi attori in tutta la regione, tra cui l’Iran. L’Arabia Saudita e gli altri membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo sono terrorizzati dalla prospettiva di una guerra calda e in superficie tra Israele e Iran, e gli Stati arabi del Golfo vogliono assicurarsi di non trovarsi nel fuoco incrociato in un simile scenario”.

Il mantenimento del dialogo con l’Iran è dunque insieme una tattica parte di una strategia per minimizzare i rischi. Per Cafiero, che è anche professore aggiunto alla Georgetown, è importante ricordare che bin Salman rimane estremamente concentrato sulla Vision 2030 (il piano di crescita globale saudita), che ha una possibilità di successo solo se ci sono pace e stabilità all’interno del Regno e in tutto il vicinato. “In questo contesto, l’Arabia Saudita vorrà che i conflitti in Israele-Palestina, Yemen e Sudan si calmino perché tutti rappresentano una minaccia per la Visione 2030”.

E dunque, restando sul contesto regionale, quali sono le dinamiche geopolitiche in corso e gli scenari dopo l’attacco di Hamas? “Mi aspetto che Washington si concentri sempre di più sul Medio Oriente. Ma non mi aspetto che gli Stati Uniti modifichino le loro politiche estremamente sbagliate, che sono tra i fattori di instabilità in questa parte del mondo”, aggiunge Cafiero. “Rischiamo un ulteriore aumento dei sentimenti antiamericani nel mondo arabo-islamico. Il dispiegamento da parte degli Stati Uniti di una portaerei nelle acque appena al largo della costa di Gaza è potenziale fonte di grande rabbia per molti arabi e musulmani che sono inquieti nei confronti di Israele e, per estensione, con gli Stati Uniti”.


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