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Nessuno (o quasi) si fida più della Cina. Così i capitali se la danno a gambe

Lo scorso mese lo stock di denaro portato via dal Dragone ha toccato i massimi da sette anni a questa parte, segno di un’economia che non convince più. Ma il partito non getta la spugna e lavora a un nuovo regolatore mentre lancia sul mercato obbligazioni per mille miliardi di yuan

Pechino, a dispetto di un Pil che nel terzo trimestre (+4,9%) ha battuto le attese degli analisti, sconta da un paio di anni buoni una crisi di fiducia, dentro e fuori i confini dell’ex Celeste Impero. I cinesi non si fidano più delle grandi società del mattone, implose sotto il peso dei debiti e incapaci di ultimare i cantieri che dovevano garantire un’abitazione alle famiglie. E del Dragone non ci si fida nemmeno tanto più all’estero, soprattutto dopo che il vaso di Pandora della Via della Seta è stato scoperchiato (qui l’intervista all’economista e consulente della World Bank, Carmine Soprano).

Ci sono i numeri a dimostrarlo. Quelli che raccontano, per esempio, come i deflussi di capitali d’investimento dalla Cina siano costantemente in crescita, segnando a settembre dunque il maggior calo netto di denaro in ingresso in sette anni. Come si spiega? Secondo gli analisti ci sono pochi dubbi, il Dragone non è più un buon posto dove investire o quanto meno tenere i propri capitali. La prova è nel massiccio trasferimento di fondi all’estero da parte di ricchi cinesi.

Secondo le autorità dei cambi, le quali tengono traccia delle transazioni finanziarie internazionali effettuate mensilmente dalle banche nazionali per conto di imprese e famiglie, il deflusso netto il mese scorso ha raggiunto i 53,9 miliardi di dollari: si tratta dell’importo maggiore dal gennaio 2016, quando la Cina ha registrato un deflusso netto di 55,8 miliardi di dollari innescato, tra gli altri fattori, da un’improvvisa svalutazione dello yuan chiamata shock renminbi.

“Le aziende straniere potrebbero aver accelerato il deflusso di capitali, svalutando o vendendo le loro attività”, ha dichiarato Toru Nishihama, capo economista del Dai-ichi Life Research Institute di Tokyo. “Il numero di aziende straniere nel settore manifatturiero e in altri settori industriali ha raggiunto il punto più basso da novembre 2004”, ha proseguito l’analista. Ma non è tutto, si sono messi di mezzo anche gli stessi Paperoni cinesi, i quali stanno spostando i loro beni all’estero a causa della preoccupazione per il futuro dell’economia della Cina. “La domanda dei clienti di trasferire i fondi verso il settore immobiliare e altri mercati nei Paesi sviluppati è aumentata questa primavera”, ha dichiarato un dipendente del dipartimento investimenti di un grande istituto finanziario cinese.

Ora, dentro e fuori il partito c’è una certa consapevolezza del problema. E non manca la volontà di correre ai ripari, come dimostra anche il progetto, per la verità già in cantiere dallo scorso marzo, di creare un nuovo ente di vigilanza con poteri più ampi rispetto a quelli detenuti dalla Pboc, cui spetta ad oggi la supervisione sul comparto bancario e più in generale finanziario. Servirà tutto questo a trattenere quei capitali in fuga? Difficile dirlo, di sicuro è in arrivo un test non da poco per il Dragone.

Se è vero, infatti, che il deflusso di denaro è al massimo storico, la prova del nove potrebbe arrivare con la maxi emissione di obbligazioni messa in programma da Pechino. Per raccogliere la liquidità necessaria a salvare le amministrazioni locali ormai in default tecnico, il governo ha deciso di immettere sul mercato mille miliardi di yuan di bond, circa 137 miliardi di dollari. Se il mercato risponderà, la Cina avrà superato il test e ottenuto i fondi, altrimenti sarà solo l’ennesima conferma di quanto detto poc’anzi. Di Pechino non si può più fidare. Non come prima, almeno.


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