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Chi soffia sul conflitto in Medio Oriente. La scelta cruciale di Israele

Rivelazioni e retroscena della stampa americana sull’intervento di Washington e dell’Europa per scongiurare che la tragica situazione di Gaza, il dramma degli ostaggi e i continui attacchi di Hamas ed Hezbollah ad Israele, facciano divampare il conflitto in tutto il Medio Oriente. L’analisi di Gianfranco D’Anna

La visita di Joe Biden in Israele e i continui contatti diretti di Blinken non hanno ancora fatto desistere il governo di Tel Aviv dall’intenzione di scatenare non un attacco ma una doppia offensiva contro Hamas a Gaza e contro gli Hezbollah nel Libano.

L’intelligence americana e inglese considerano ad alto rischio i piani predisposti dal ministro della Difesa Yoav Gallant, risoluto sostenitore di un attacco preventivo contro gli Hezbollah. Gallant sostiene che il principale sforzo militare di Israele dovrebbe concentrarsi su Hezbollah poiché rappresenta una minaccia maggiore di Hamas. Ma tanto Washington che Londra stanno facendo pressioni sul premier Benjamin Netanyahu, che però è fortemente indebolito perché ritenuto in parte responsabile della situazione che ha portato ai massacri compiuti il 7 ottobre da Hamas. La sua colpa è di aver provocato profonde divisioni al Paese con le forzature sul sistema giudiziario.

Divisioni che hanno distolto e indebolito i servizi di sicurezza e l’esercito di Tel Aviv. Il New York Times rivela come il presidente Biden, il segretario di Stato Antony Blinken e il Pentagono abbiano esortato i leader israeliani a non effettuare alcun attacco in profondità in territorio Libanese contro la potente milizia Hezbollah perché il conflitto deflagrerebbe all’intero Medio Oriente, coinvolgendo negli attacchi contro Israele direttamente l’Iran e la Siria. “Biden – scrive il New York Times – ha sollevato lo spettro delle disastrose decisioni degli Stati Uniti di invadere l’Iraq e di intraprendere una lunga guerra senza fine in Afghanistan”.

Mentre dal valico di Rafah tra Egitto e Gaza è finalmente iniziato il transito dei camion che trasportano forniture mediche e aiuti umanitari alla popolazione palestinese ostaggio di Hamas, l’esercito israeliano sta completando la pianificazione dell’attacco per snidare i terroristi islamici. Anche qui le intelligence occidentali e in particolare della Nato hanno messo in guardia Tel Aviv a non cadere nella trappola di Hamas che ha pianificato da anni lo spietato blitz e soprattutto ha predisposto micidiali dispositivi di difesa in un labirinto di macerie, aree minate e di tunnel sotterranei per contrastare la prevista reazione israeliana. Consigliati soprattutto l’utilizzazione di droni e robot per individuare e bonificare i bunker sotterranei.

Il Washington Post evidenzia come “la pratica di Hamas di immagazzinare e utilizzare razzi e mezzi militari tra i civili e nelle strutture umanitarie aumenterà ulteriormente l’esposizione dei civili al rischio”. La presenza degli ostaggi nei tunnel sotterranei dei miliziani accentua in maniera esponenziale la difficoltà dell’attacco a Gaza. Il rilascio di due cittadine statunitensi ha acuito il riflesso condizionato sulla gestione degli ostaggi che pervade Washington dalla cattura a Teheran nel 1980 di 52 diplomatici dell’Ambasciata Usa presa d’assalto dai seguaci di Khomeynī e più recentemente dai cittadini americani catturati e sgozzati dall’Isis e dai fondamentalisti islamici.

Il tragico fallimento delle trattative sugli ostaggi in Iran costarono la rielezione al presidente Jimmy Carter. Non a caso Biden ha sostenuto che garantire il rilascio degli ostaggi è la sua massima priorità. La Casa Bianca non è sicura di quanti cittadini statunitensi siano tenuti prigionieri. Ufficialmente risultano dispersi 10 americani. Si presume che non tutti siano ostaggi perché ancora non sono state identificate molte delle vittime massacrate da Hamas. La considerazione che una volta che Israele invaderà, le trattative si interromperanno e l’incolumità dei prigionieri sarà fortemente a rischio alimenta le tensioni tra Tel Aviv e i vari paesi dei quali sono originari o hanno doppia nazionalità parte dei 200 ostaggi. Le trattative per liberare gli altri ostaggi continuano, così come il nostro lavoro per garantire un passaggio sicuro fuori da Gaza per i circa 500 americani che sono intrappolati lì”, ha detto il ​​segretario di Stato Blinken.

Sulla scorta delle esperienze precedenti gli Stati Uniti hanno istituito l’ufficio dell’“inviato presidenziale” per gestire le trattative internazionali sugli ostaggi, coordinare le ricerche e comunicare informazioni con i familiari. Dalle parti di Mosca, chi continua, molto sotto traccia, a gettare benzina sul fuoco del conflitto mediorientale ha evidentemente calcolato di colpire anche questo nervo scoperto dell’America per condizionare le elezioni presidenziali. Una sfida occulta contro la Stella di David e le democrazie occidentali che evidenzia l’approssimarsi del capolinea.


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