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L’attacco a Israele non ferma Erdogan contro i curdi

Per Bakir (Acus), la Turchia non fermerà gli attacchi contro i curdi finché non lo riterrà necessario. Il rischio è una ulteriore destabilizzazione regionale, oltre che al costo umano dei bombardamenti di Erdogan. Tutto mentre Israele lancia la controffensiva su Gaza

Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, scrive su Twitter di aver parlato con il suo omologo turco, il ministro degli Esteri Hakan Fidan, e di averlo coinvolto nel tentativo di convincere Hamas – colpevole di un brutale assalto contro Israele, sabato 7 ottobre  – a rilasciare i civili catturati. Blinken aggiunge anche di aver “incoraggiato la difesa della Türkiye per un cessate il fuoco”.

L’ambiguità su Israele e Palestina

La Turchia (o Türkiye, col nome nazionalista voluto dalla presidenza Erdogan che Blinken usa per evitare “Turkey”, che in inglese significa anche “tacchino” e che non è mai piaciuto ai turchi) ha seguito l’impostazione del mondo arabo. Ankara non ne è parte, ma lo marca con attenzione per via del ruolo che vorrebbe avere all’interno della sfera islamica. Nelle dichiarazioni ufficiali, il governo turco ha chiesto di evitare la de-escalation, senza sposare apertamente la posizione israeliana – nonostante con Israele sia da tempo in piedi una nuova fase delle relazioni, basata sulla condivisione di intelligence in ottica contro-terrorismo (anche a tema “Iran”, convitato di pietra dietro all’attacco di Hamas, perché i terroristi palestinesi da tempo ricevono fondi, armi, addestramento e in qualche modo coordinamento da parte dei Pasdaran).

“Aggiungere benzina sul fuoco non gioverà a nessuno, soprattutto ai civili di entrambe le parti”, ha detto Recep Tayyp Erdogan. Ma la Turchia è uno di quei Paesi in cui i cittadini sono scesi in strada per festeggiare l’azione palestinese contro Israele. Erdogan ha sempre tenuto una posizione di totale, aperto sostegno alla causa palestinese, e ha anche permesso contatti più o meno pubblici con le fazioni più radicali, come Hamas. Al punto che su X, Jonathan Schanzer del neocon FDD ed ex analista del Tesoro, replica a Blinken scrivendo: “Hakan Fidan era il capo dell’intelligence che presiedette alla creazione di un quartier generale di Hamas in Turchia, il quale includeva un comandante terrorista attivo che dirigeva gli attacchi in Cisgiordania, Saleh al-Arouri”.

Se quella di Schanzer è una dichiarazione parte di un campagna che dura da tempo — per criticare i collegamenti turchi con Hamas, che ha anche prodotto lo scarrellamento del gruppo verso l’Iran — quella turca è una posizione strategicamente ambigua. Ankara la usa come leva con Israele e non solo. Più recentemente, l’appoggio alle istanze della Palestina serve infatti a differenziare la linea da quella di altri Paesi – come gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto o l’Arabia Saudita – che hanno avviato forme di dialogo con gli israeliani le quali, secondo la narrazione turca (e non solo) hanno abbandonato le istanze della Palestina. Non a caso, anche in questi giorni è tornato a sollevare la soluzione a due stati come unica forma di sistemare la questione palestinese che è alla base “di tutti problemi della nostra regione.

Erdogan si trova ad affrontare la vicenda in un momento particolare, perché ciò che è accaduto nei territori israeliani attorno a Gaza avviane mentre la Turchia è lanciata in una nuova offensiva contro i curdi. Una sovrapposizione di questioni annose – sebbene Erdogan non sembri voler adottare la stessa apertura che riguardo alla Palestina quando si tratta delle beghe territoriali al sud del suo Paese, o appena oltre confine in Siria.

Le operazioni contro i curdi

“La Turchia continuerà a contrastare il terrorismo di Pkk e Ypg (i curdi turchi e siriani, ndr) in diverse forme, compresa l’opzione militare”, spiega Ali Bakeer, senior fellow dell’Atlantic Council. “L’obiettivo finale — continua con Formiche.net — è impedire alle milizie curde di lanciare attacchi terroristici transfrontalieri e tagliare la strada ai tentativi di creare uno Stato curdo de facto guidato dall’Ypg nel nord della Siria, ai confini meridionali turchi”.

Per l’esperto del think tank statunitense, finché i gruppi combattenti curdi continueranno a ricevere denaro e armi, poi utilizzate contro la Turchia, Ankara sarà “determinata ad aumentare la pressione sull’organizzazione terroristica al di fuori dei confini turchi”. Nella ultima dichiarazione di Fidan, ora ministro degli Esteri un tempo capo dell’intelligence e uomo fidatissimo del presidente Erdogan, ha avvertito coloro che sostengono l’Ypg di stare lontani dal gruppo (che per la Turchia è una entità terroristica) per evitare il rischio di essere colpiti. “È una vetrina” delle intenzioni del governo turco, spiega Bakir.

Il messaggio è chiaro, rivolto anche a un alleato in particolare, che ha collegamenti stretti con i curdi: gli Stati Uniti, che con una scelta detestata da Ankara hanno elevato le milizie siriane a partner nella lotta al terrorismo — un riconoscimento che i curdi hanno usato anche come fattore di riconoscimento delle loro istanze indipendentiste sull’agognato stato del Rojava.

In un recente sviluppo, le tensioni tra Turchia e Stati Uniti sono aumentate dopo l’abbattimento di un drone turco da parte delle forze statunitensi in Siria. Il Pentagono ha spiegato che l’azione si era resa necessaria perché il velivolo stava bombardando postazioni curde a meno di 500 metri di distanza da dove erano acquartierate alcune unità delle forze speciali statunitensi (in Siria per presenza territoriale e per proseguire le attività contro le spurie baghdadiste). I funzionari di Ankara da parte loro hanno chiarito che non si tireranno indietro nella lotta contro i gruppi terroristici, indipendentemente dalle sfide che dovranno affrontare.

Fahrettin Altun, direttore delle comunicazioni della presidenza turca, ha sottolineato l’impegno incessante per sradicare il terrorismo dalle regioni settentrionali della Siria e dell’Iraq. Altun ha criticato l’approccio di combattere un gruppo terroristico con un altro e ha esortato Washington a riconsiderare il suo sostegno ai gruppi curdi. Ha descritto l’aiuto a tali organizzazioni come “una vera e propria tremenda stupidità”.

Il contesto

La questione curda e la determinazione — operativa e narrativa — turca arriva in risposta a un recente attentato ad Ankara, rivendicato dal Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk).

L’abbattimento del drone turco ha segnato un incidente significativo, in quanto è stato il primo conflitto armato tra alleati della Nato in Siria e la prima volta nella storia della Nato che un alleato ha abbattuto un veicolo aereo senza pilota di un altro. Nonostante la confusione iniziale sulla proprietà del drone, legata probabilmente anche all’imbarazzo sul come gestire la situazione, alla fine la Turchia ha riconosciuto che apparteneva a loro.

La vicenda è indicativa di come Ankara sia determinata a procedere con la campagna anti-curda, nonostante, anche prima dello scontro aereo, dagli Usa erano arrivate indicazioni sul rallentare ed evitare escalation. Escalation che visto il delicatissimo quadro israelo-palestinese aggraverebbe il contesto regionale. La Turchia invece, anche approfittando degli occhi del mondo puntati su Israele, ha continuato con gli attacchi aerei nel nord-est della Siria, prendendo di mira pozzi petroliferi e infrastrutture energetiche gestite da gruppi curdi siriani, anche come contro-messaggio verso gli alleati americani.

Ci sono state diverse vittime civili e interruzioni di servizi base, tra cui la perdita di acqua ed elettricità nel campo di al-Roj, dove sono detenute le famiglie di sospetti combattenti dello Stato Islamico. Potenzialmente potrebbero innescare situazioni ancora più problematiche per la sicurezza regionale se quei prigionieri dovessero essere in qualche modo costretti o portati a dover lasciare il campo di detenzione. Un riflesso su Israele diretto, che riflette delle destabilizzazioni interne al dossier siriano, e teme infiltrazioni baghadiste tra il proselitismo palestinese.


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