Pechino ha dato dimostrazione di sapersi muovere autonomamente, nonostante la dipendenza dagli strumenti tecnologici occidentali. Oltre a incentivare la produzione nazionale, risponde a Washington con la stessa moneta, imponendo restrizioni sulle terre rare
Gran parte della sua crescita la Cina la deve a se stessa. Una capacità che ha saputo riadattare nel tempo, come dimostra anche l’ultimo periodo. Le restrizioni imposte dall’amministrazione americana di Joe Biden rendono più difficile la vita alle aziende cinesi, e quindi allo sviluppo dello Stato. Pechino ha sempre fatto grande affidamento sulla tecnologia occidentale, per questo Washington ha deciso di mettere un freno all’export, per evitare di contribuire agli scopi poco nobili che il Dragone intende raggiungere. Per riuscirci, il governo ha aumentato la propria spesa (+16,2%) per sostituire il know how statunitense con quello domestico.
Dal settembre dello scorso anno, il numero di bandi per avviare la nazionalizzazione è quasi raddoppiato, passando da 119 a 235. In base a quanto riportato dalla società di ricerca sull’IT First New Voice, Pechino avrebbe già speso 191 miliardi di dollari per sostituire hardware e software che un tempo venivano importati. La rivoluzione ha interessato prima il settore informatico, ma secondo alcune fonti interpellate da Reuters i prossimi a cui toccherà saranno quelli delle telecomunicazioni e della finanza, fortemente dipendenti dai prodotti tech statunitensi. In quest’ultimo settore potrebbero rientrare anche i pagamenti digitali potenzialmente hackerabili, come Union Pay, proteggendo quindi lo sviluppo self-made.
C’è da dire che, nonostante i paletti imposti dagli Stati Uniti, la Cina è stata ugualmente in grado di rifornirsi per via traverse. La dimostrazione è il Mate 60 Pro di Huawei, che contiene un chip 7nm, chiamato Kirin 900S, risultato delle scorte di semiconduttori costruite dalle varie aziende cinesi e dalla ricerca su mercati alternativi che l’hanno fatta tornare in corsa. Oltre a essa, anche la Yangtze Memory Technologies Corporation (Ymtc) ha ovviato facendo sponda su terze parte, in questo caso da Giappone e Olanda, alleati degli americani. Insomma, ci sono delle falle in cui Pechino si è gettata senza pensarci.
Tolto questo aiuto, però, la Cina deve pensare a fare il resto da sola. La dipendenza dagli strumenti tecnologici occidentali è forte, ma sembrerebbe che lentamente ne stia uscendo. Entro il 2027 le aziende statali sono chiamate a sostituire i sistemi di software con materiali prodotti internamente. Anche all’esercito è stato richiesto lo stesso con i computer che vengono utilizzati dai soldati. Decisioni molto simili a quella che vieta l’utilizzo degli iPhone ai funzionari del governo, un problema non banale per l’azienda di Cupertino, che nel mercato cinese aveva uno sbocco commerciale importante.
A beneficiarne, ovviamente, sono le aziende cinesi. Dato che di fronte a quelle straniere è stato alzato un muro invisibile, sono loro a vincere più bandi, ottenendo più finanziamenti. Ad ora non è chiaro dove porterà la nuova politica cinese. Di certo, le qualità per emergere autonomamente ci sono, sebbene debbano essere perfezionate.
Il primo passo è stato estromettere gran parte delle aziende tecnologiche americane, una mossa lecita in quanto la Cina non è parte firmataria delle clausole che regolano gli appalti pubblici all’interno dell’Organizzazione Internazionale del Commercio, sebbene abbia uno dei mercati più grandi e in più rapida espansione al mondo. Il secondo passo, invece, riguarda la risposta a Washington. La Cina ha infatti bloccato l’export di grafite, fondamentale per la realizzazione delle batterie elettriche. Ma sono più in generale le terre rare – di cui l’Occidente è privo – che vengono messe al bando.