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Frenesia diplomatica (e deterrenza militare) per salvare il nuovo Medio Oriente

Le tensioni in corso nel Medio Oriente potrebbero complicare la costruzione di una regione “nuova”, dove le normalizzazioni proseguono e lo sviluppo aumenta. Molto dipende adesso dalla gestione della crisi e da come Israele sceglierà di rispondere al brutale attacco subito. A questo si lega la frenesia diplomatica, abbinata alla deterrenza contro chi potrebbe sperare in ulteriori destabilizzazioni

Il nuovo Medio Oriente doveva partire da un rinnovato spirito di comunione tra Israele e il mondo arabo, ma probabilmente ripartirà da una nuova invasione israeliana di Gaza. L’attacco di Hamas ha complicato gli equilibri, favorendo coloro che intendono evitare distensioni e normalizzazioni. La legittima reazione israeliana potrebbe mettere le cose ancora più in crisi — ed è per questo che è in corso una profonda attività diplomatica.

A fine settembre, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha presentato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la visione di un “Nuovo Medio Oriente”, sottolineando il miglioramento delle relazioni con gli Stati arabi e la creazione di nuovo asse per il commercio globale. Un asse che faceva della regione lo snodo della connettività tra l’Indo Pacifico e l’Europa.

La geopolitica economica doveva essere il motore che avrebbe spinto la serie di normalizzazioni pragmatiche arabo-israeliane, che avrebbe avuto il culmine con l’apertura di relazioni efficaci tra Riad e Gerusalemme. La crisi a Gaza ha messo in pausa questo processo, su cui gli Stati Uniti avevano investito gran parte del loro impegno strategico regionale.

Basta seguire le ultime 72 ore di Antony Blinken per comprendere come la “shuttle diplomacy” (copyright Joyce Karam) sia intensa. Il segretario di Stato americano ha fatto la navetta tra Israele, Cisgiordania, Giordania, Qatar, Bahrein, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita (di nuovo), Egitto, Giordania (di nuovo), Israele (di nuovo oggi, lunedì 16 ottobre). Obiettivo: gestire, o meglio co-gestire la crisi. E non è un caso se su questo gli americani hanno coinvolto anche Pechino, chiamato a rispondere a quella necessità di essere un “responsible stakeholder” nelle relazioni internazionali.

Fonti mediorientali usano la visita di Abd Allah II ibn al-Ḥusayn di Giordania a Roma, sempre oggi, per confermare una sensazione: c’è massima attività e attenzione per evitare che un’eventuale escalation nella Striscia — connessa all’imminente invasione israeliana — si trasformi in una catastrofica crisi regionale. Anche per questo l’Italia cerca di fare il suo. È una preoccupazione condivisa tra i Paesi arabi mediorientali, Turchia, ma anche da Stati Uniti e dall’Unione europea, così come dalla Cina (che predilige da sempre sfruttare la costruzione di contatti “armoniosi”, termine secondo dottrina, per sfruttare i propri interessi).

L’Iran, la diplomazia e la deterrenza

Quella preoccupazione ha un nome: Iran. Il rischio che l’invasione della Striscia coinvolga anche i libanesi di Hezbollah — collegati a doppio filo con i Pasdaran — è evidente. Dal Libano ci sono già stati attacchi contro Israele in questi giorni, con la situazione tra i due fronti che dalla guerra del 2006 è in delicato de-conflicting (attraverso l’impegno della missione onusiana Unifil, in cui l’Italia ha un ruolo predominante), ma non pacificata.

Anche in questo caso, si pensava che le geoeconomia potesse fare da vettore di rasserenamenti: la Casa Bianca era riuscita a mediare un accordo per i confini marittimi tra Israele e Libano che comportava la partizione di alcuni reservoir gasiferi presenti in quei fondali. Hezbollah aveva accettato, pensando ai potenziali proventi da sfruttare a proprio interesse, ma è notizia di questi giorni che la prima perforazione di uno dei blocchi individuati dalle prospezioni geofisiche non ha tirato fuori altro che acqua.

E nel frattempo, Hezbollah ha già comunicato che “entrerà in guerra” contro Israele in qualsiasi momento riterrà giusto farlo. E l’Iran avrebbe già fatto recapitare a Israele, via Onu, un messaggio che in sintesi dice: dovremo intervenire se l’operazione militare a Gaza continua.

Sul piano pratico, i rischi sono molteplici: tra i fronti potenziali non c’è solo quello libanese, perché anche quello siriano è infestato da milizie filo-iraniane che hanno puntellato il regime assadista. Israele ha nuovamente (per l’ennesima volta dal 2013) bombardato le catene di approvvigionamento siriano dei Pasdaran nei giorni scorsi, mentre circolano segnalazioni non verificabili sull’ordine di mobilitazione che la componente armata teocratica iraniana avrebbe dato alle unità sciite afghane (Fatemiyoun) e pakistane (Zeinabiyoun) presenti in Siria.

Il quadro è articolato: il coinvolgimento iraniano potrebbe infatti riguardare anche l’Iraq, dove i partiti/milizia sciiti hanno un ruolo centrale (e dove è presente una missione di dissuasione della Nato guidata dall’Italia). Oppure lo Yemen. La guerra yemenita è in condizione di cessate il fuoco altamente precario, e anche in questo dossier gli iraniani hanno un ruolo — sebbene qui come altrove le agende locali prevarichino spesso quelle internazionali.

Inoltre, se c’è da scommettere su un potenziale punto di stallo, allora quello potrebbe essere Hormuz. Lo stretto lungo il Golfo Persico è il principale chokepoint del mercato energetico globale, e già in passato è stato sfogatoio di tensioni iraniane. Figurarsi cosa potrebbe succedere ai traffici dei tanker dell’oil&gas se in qualche modo Teheran finisce coinvolto in una guerra con Israele. I nervosismi del prezzo del petrolio sono già un indicatore delle conseguenze di un blocco militare o di una nuova stagione di sabotaggi.

Il ruolo del rafforzamento militare americano sta qui principalmente: deterrenza davanti all’evolversi della crisi. Gli Stati Uniti hanno inviato due gruppi da battaglia (si chiamano così i sistemi navali composti da una portaerei e diverse altre unità navali da guerra). Ma non solo.

Gli Stati Uniti hanno raddoppiato la capacità aerea regionale (con più F-15, F-16 e A-10) e hanno inviato nuove squadre di forze speciali (essenzialmente Navy Seals) che potrebbero partecipare alla liberazione degli ostaggi, ma anche a operazioni mirare. Inoltre, quattro bombardieri a capacità nucleare B-1 sono stati posizionati nel Regno Unito, perché l’Americana punta anche nell’appoggio logistico degli alleati europei per prepararsi al peggio. 

In quest’ottica, il ruolo delle basi italiane – per primo quella siciliana di Sigonella – è cruciale, innanzitutto per osservare e intercettare, attraverso i droni Global Hawk, i movimenti nella regione. L’obiettivo è di non farsi trovare impreparati se dovesse esserci un’escalation. Ossia se la rete diplomatica dovesse in qualche modo fallire i propri intenti.

Israele è impantanato?

Finora c’è un senso di attendismo tattico, ed è molto probabile che l’operazione terrestre israeliana non sia partita non solo per le pessime condizioni meteorologiche. C’è un calcolo politico, ma mancano le soluzioni.

L’attacco di Hamas ha avuto dimensioni mostruose, paragoni storici, effetti psico-sociali devastanti. Netanyahu potrebbe effettivamente finire la sua lunghissima carriera (e affrontare tutte le beghe legali da cui il ruolo di premier lo sta per ora salvaguardando) come successe a Golda Meier dopo la guerra del 1973. Ma intanto, ha alternative estremamente ristrette.

Trattare per la liberazione degli ostaggi non rischia solo di mandare un messaggio di debolezza, ma apre su questo un precedere spaventoso. L’operazione terrestre per smantellare Hamas dalla Striscia è strategicamente necessaria, sia sul piano politico che securitario. Ma quanto è possibile? Con quali rischi? “Israele deve pensare alle conseguenze [dell’invasione di Gaza] e non lanciarsi in una guerra senza una strategia di uscita […] Non esiste un piano. Se distruggi Hamas, cosa riempirà il vuoto? Distruggi Al Qaeda e ottieni l’Isis. Se distruggi Hamas, ottieni Hamas 2.0”, dice al Wall Street Journal un funzionario statunitense (un media che non può essere di certo accusato di tenere una linea anti-israeliana).

Avviare l’attacco senza un chiaro obiettivo su cosa verrà dopo è lo scenario più probabile, ma allo stesso tempo il più rischioso. L’occupazione potrebbe durare anni, trasformarsi in una endless war israeliana. Ma l’alternativa ventilata da più di una fonte regionale di lasciare la gestione della Striscia ai Paesi arabi – per quanto strategicamente affascinante – è improbabile per non dire impossibile. Altrettanto complesso spostare l’amministrazione dell’area all’Autorità palestinese: il regime change interno trova un problema nell’Ap stessa, governata da un ottuagenario dalla poca efficacia politica, percepita come da riformare dai palestinesi stessi.

In un’analisi scritta per il Financial Times, Lawrence Friedman, storico di Stanford, ha analizzato la ricerca di strategia israeliana concludendo che potrebbero esserci possibilità con la Cisgiordania. “Ha senso comunque nelle circostanze attuali evitare ulteriori aggravamenti e con uno sforzo serio potrebbe esserci un modo per dimostrare che migliorare le relazioni non è impossibile. Questa non è una barra alta, anche se per l’attuale governo [israeliano] potrebbe esserlo. Mentre Israele si scontra con i limiti del potere militare, potrebbe aver bisogno almeno di esplorare le possibilità di iniziative politiche”.


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