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Golfo, Ue, Russia, Usa. L’Iiss ricompone il puzzle dietro l’attacco di Hamas

Gaza

Non solo Israele e Palestina, ma anche Libano, Egitto, Arabia Saudita. Arrivando fino a Stati Uniti e Russia. L’offensiva di Hamas ha delle potenziali ricadute su tutta una serie di attori, regionali o meno, che evidenziano l’interdipendenza esistente

Durante le prime ore di sabato 7 ottobre, Hamas da il via ad un’operazione offensiva su larga scala senza precedenti nella sua storia. Israele viene colta completamente di sorpresa, ed è incapace di reagire in modo efficace e veloce, portando al verificarsi di una situazione estremamente delicata dal punto di vista internazionale. Le implicazioni di questa vicenda sono state analizzate in modo trasversale dall’International Institute for Strategic Studies (Iiss), che ha rilasciato un report dove i suoi esperti si soffermano sulle implicazioni per ogni attore toccato, direttamente o meno, dalla vicenda.

A partire da Israele, che già stava vivendo un periodo di difficoltà a causa delle proteste dilaganti in tutto il paese da diversi mesi, causate dalle riforme giudiziarie promosse dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu. La rilevanza della questione era tale che lo Shin Bet (l’Agenzia di Sicurezza Israeliana) aveva classificato la conseguente polarizzazione della popolazione come una delle principali preoccupazioni interne, spiega il report del think tank inglese, a causa della capacità di erodere la coesione sociale dello Stato ebraico. Assieme alle capacità delle Israeli Defence Forces: in segno di protesta contro l’esecutivo, tra marzo e luglio alcuni riservisti dell’aeronautica israeliana si sono rifiutati di mantenere le ore di addestramento, istruttori elicotteristi si sono rifiutati di presentarsi in servizio e i riservisti attivi delle forze speciali si sono rifiutati di offrirsi come volontari.

E ancora: parallelamente, durante gli ultimi mesi gli sforzi dell’establishment governativo (assieme a quelli dell’apparato di sicurezza nazionale) si erano concentrati sulla normalizzazione dei rapporti con Riad, con un focus importante sul ruolo che la “questione palestinese” avrebbe avuto all’interno del processo. Con prospettive più che rosee. Lo stesso principe ereditario saudita Mohammed Bin-Salman aveva affermato in settembre che “Ogni giorno, ci avviciniamo sempre di più”. Ma i recenti avvenimenti potrebbero causare una inversione di rotta.

Per quanto riguarda la Palestina, l’offensiva di Hamas ha portato a un temporaneo sodalizio con la principale organizzazione rivale, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), che ha giustificato l’azione militare come risposta alle violenze commesse da Israele. Tuttavia, la crescita della popolarità della prima potrebbe permettergli di raccogliere maggiori consensi rispetto alla seconda, che fino ad ora si è fatta fautrice di un atteggiamento più cooperativo nei confronti di Tel Aviv. Inoltre, il successo dell’offensiva potrebbe spingere gli altri gruppi armati palestinesi a lanciare a loro volta attacchi contro i militari e la popolazione israeliana. Il rischio che l’Olp perda il controllo sulle dinamiche di sicurezza nei territori palestinesi è dunque molto concreto.

Una dinamica che preoccupa anche altri paesi della regione medio-orientale, come Egitto e Giordania. Entrambi hanno sempre lavorato per legittimare l’Autorità Palestinese e per contenere l’estremismo nei territori sotto il suo controllo. Adesso, sia il Cairo che Amman vedono il rischio di una guerra continuativa lungo i loro confini, con tutti i rischi di destabilizzazione che essa implicherebbe, soprattutto alla luce delle forti minoranze palestinesi ospitate dai due paesi.

Anche Turchia e Qatar sono considerabili parti in causa, per via del sostegno dimostrato nei confronti di Hamas nel corso degli anni. Essi potrebbero farsi avanti come mediatori (il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan si è già esposto al riguardo), ma c’è il rischio che in caso di fallimento delle trattative la loro reputazione diplomatica possa uscirne compromessa.

Una delle grandi incognite è, ovviamente, quella iraniana. Nonostante negli ultimi anni Teheran si sia avvicinata sempre di più ad Hamas, è difficile credere che l’Iran sia disposto ad impegnarsi in un conflitto diretto contro Israele, essendo ben consapevole delle possibili conseguenze che tale intervento potrebbe comportare. Ma qualora Hamas, sotto i colpi della controffensiva israeliana, invocasse un sostegno diretto di Teheran, un rifiuto da parte del regime degli Ayatollah potrebbe avere contraccolpi importanti sull’intero network di proxy iraniane nella regione.

L’altra è Hezbollah. I forti legami tra i due gruppi armati hanno dato adito a dubbi (ancora ben presenti) sulla possibilità di un’offensiva del gruppo armato sciita nell’area settentrionale di Israele. Sono di poco tempo fa le dichiarazioni congiunte dei leader dei due movimenti che auspicavano una più forte cooperazione tra i due (includendo anche con molta probabilità la Guardia Rivoluzionaria di Teheran). Fino ad ora le azioni militari di Hezbollah sono state molto limitate, e il supporto ad Hamas si è manifestato soltanto attraverso dichiarazioni. Un’eventuale escalation potrebbe portare all’intervento di potenze straniere (come gli Usa), rivelandosi quindi più dannoso che vantaggioso; invece, mantenendo le sue formazioni al confine, Hezbollah riesce a tenere occupate unità militari israeliane che altrimenti potrebbero andare ad operare nella regione meridionale.

Per quel che riguarda gli attori esterni alla regione, le posizioni sono diverse. L’Unione Europea ha un ruolo marginale, dovuto alla divisione dei suoi Stati membri e della sua opinione pubblica riguardo al conflitto israelo-palestinese, che le permette di limitarsi a iniziative diplomatiche di corto respiro. La Federazione Russa trae soltanto beneficio dal conflitto, divergendo l’attenzione mediatica e le energie diplomatiche dal conflitto ucraino, ma teme un allargamento del conflitto all’Iran, suo prezioso alleato e fornitore di armamenti. Infine, gli Stati Uniti hanno inviato un carrier group in virtù del suo ruolo di garante di Israele, segnalando ad attori ostili che un loro intervento potrebbe causare una risposta militare di Washington.



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