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Il mondo islamico ha lasciato ai palestinesi solo le briciole. Il commento di Arditti

Vale la pena aggiungere al dibattito un dato certo, che riguarda la totalità del mondo musulmano. Un mondo che, in buona sostanza, ha investito in ogni direzione possibile tranne che negli aiuti ai palestinesi, con un obiettivo preciso: mantenere aperta e sanguinante la ferita, come drammatico strumento di pressione verso Israele, l’Europa e gli Stati Uniti

Si può discutere all’infinito su quanto ha fatto Israele per avviare a soluzione pacifica la questione palestinese, tema su cui le opinioni divergono in misura enorme. Ma vale la pena aggiungere al dibattito un dato certo, che riguarda la totalità del mondo musulmano. Un mondo che, in buona sostanza, ha investito in ogni direzione possibile lasciando ai palestinesi le briciole, con un obiettivo preciso: mantenere aperta e sanguinante la ferita, come drammatico strumento di pressione verso Israele, l’Europa e gli Stati Uniti.

Plastico esempio è dato in queste ore dall’unica nazione diversa da Israele che confina con Gaza, cioè l’Egitto, la cui decisone non è soltanto quella di chiudere il valico di Rafah a sud della striscia (non ve ne sono altri), ma addirittura di rafforzarne i baluardi con nuove barriere di cemento per evitare ogni passaggio di sfollati dalle zone sottoposte a bombardamenti. Ed è lo stesso Egitto, tanto per capirci, che investe 58 miliardi di dollari per la costruzione della nuova capitale amministrativa a est dei Il Cairo. Ma non solo, c’è anche il miliardo per il nuovo museo alle porte delle piramidi (scelta saggia, sia chiaro, che servirà a dare grande impulso al turismo).

E che dire poi del Qatar, che ospita nella sua capitale Doha il leader di Hamas Ismail Haniyeh, comodamente alloggiato all’hotel Four Seasons. È stimabile in 200 miliardi di dollari l’investimento messo in campo per i mondiali di calcio 2022, che hanno regalato al Paese nuove infrastrutture su vari fronti, come metropolitane, logistica, porti e aeroporti. Ma ci sono anche 7 miliardi spesi per i soli stadi, alcuni dei quali utilizzati per le competizioni internazionali e poi smontati. Senza dimenticare poi che parliamo di una nazione con meno di 3 milioni di abitanti (ma con soltanto 300.000 cittadini qatarioti), che riesce a spendere 12 miliardi di dollari all’anno in attrezzature militari, con una spesa pro capite altissima e forse addirittura la prima al mondo.

Facciamo ancora tre esempi, per rendere significativo oltre ogni dubbio ragionevole questo discorso. Cominciamo con gli Emirati Arabi Uniti che stanno per raggiungere i 25 miliardi di dollari di spesa militare, ma che hanno saputo trovare anche 6 miliardi di investimenti per l’industria culturale (opera meritoria e lungimirante) all’interno dei quali ci sono anche i 700 milioni per il Louvre. E proseguiamo con l’Arabia Saudita capace di un piano da 500 miliardi di dollari per la nuova città Neom, di cui 150 o 200 andranno al progetto The Line, il nuovo agglomerato urbano in costruzione con la volontà di realizzare la metropoli del futuro, portando davanti al mondo intero il segno di una leadership che va ben oltre il petrolio.

Ma non è solo Neom a mobilitare cifre colossali perché per i soli 5 km² del centro di Gedda si lavora immaginando di spendere circa 5 miliardi nei prossimi anni. Infine il piccolo Bahrein, isola del Golfo da sempre legata in modo strettissimo alla monarchia saudita. Lo Stato, che gode i frutti di una concessione per lo sfruttamento di uno dei pozzi di petrolio più redditizi dell’area, ha speso 150 milioni di dollari per la costruzione del circuito della Formula 1, occasione certamente solida per la promozione nazionale ma che evidenzia una disponibilità assai robusta di capitali.

Potremmo continuare, provando a stimare le risorse del movimento Hezbollah nel sud del Libano, nazione che peraltro ospita in 12 malandati campi 300.000 profughi palestinesi da tutti disconosciuti. Oppure potremmo tentare di calcolare le spese in armi e repressione dell’Iran e persino della Siria, nazione quest’ultima in prima linea nello schieramento ostile ad Israele ma con 120.000 palestinesi dentro i propri confini in condizioni assai precarie. D’altronde chi si è speso per aiuti ai palestinesi in questi anni?

Certamente l’Unione Europea, che non a caso ha un programma 2021-2027 da 1,2 miliardi di euro. Lo hanno fatto anche i Paesi dell’area? Sì, ma certamente in misura assai ridotta rispetto alle reali possibilità e comunque con risorse mai seriamente condizionate all’emergere di una leadership votata allo sviluppo economico ed al ritorno ad un sentiero di pace. Allora deve essere chiaro un punto. In Israele molta della battaglia politica interna si è giocata sul respingere sforzi concreti verso una convivenza pacifica. Ma le nazioni intorno scommettono politicamente da anni sulla violenza e sul caos.

Lo si è visto nell’ultimo mese: Arabia Saudita e Israele fanno (storici) passi concreti verso la pace (che servirebbe come manna anche ai palestinesi) e da Gaza parte un attacco brutale come mai nella storia. Chi pensa al caso o all’anniversario con la Guerra del Kippur non sa quello che dice.


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