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Imperfezioni, il romanzo che denuncia la violenza psicologica contro le donne

Di Claudia Marin

Pubblichiamo un estratto del libro dal titolo “Imperfezioni”, edito da Rubbettino editore e scritto dalla giornalista del Quotidiano Nazionale Claudia Marin

È uscito in questi giorni “Imperfezioni”, il nuovo libro di Claudia Marin, giornalista del Quotidiano Nazionale (Iride edizioni). Un romanzo individuale e familiare che indaga e scarnifica un tabù: la violenza psicologica domestica in un ambiente della buona e sacra borghesia, un ambiente nel quale formalismo, buone maniere e ipocrisia impediscono di vedere certi comportamenti, fino al punto di negarli o di derubricarli a normale dialettica coniugale. Azzurra, la protagonista, è microscopicamente ritratta nel suo soffrire, a sopportare, in apparenza passivamente, le mortificazioni, le angherie, le sopraffazioni, le sottomissioni, fino alla violenza di suo marito, nel chiuso delle pareti della loro bella casa. Le pagine sono anche la trama, sofferta e gravida di ferite e di contraddizioni, di un tenace percorso di consapevolezza, di liberazione e di autonomia. Di seguito ne pubblichiamo un estratto:

«Ecco Elisa, la paura è cominciata da lì, proprio quella notte. È entrata in me per avventura, un po’ come certi incontri casuali che poi, però, ti cambiano la vita. Si è insediata a sorpresa dietro le quinte della mia interiorità e, da subito, ha incominciato a corrodermi la volontà e l’entusiasmo di vivere; a mia stessa insaputa. Adesso che siamo qui io e te è davvero difficile richiamare efficacemente l’idea. Ma vorrei lo stesso provare a spiegare di che cosa si trattava. Perché, tu lo sai si fa presto a dire “paura”».

Azzurra era seduta sul tavolo da pranzo, Elisa le lunghe gambe penzoloni e un po’ dondolanti, su e giù aritmicamente, come piace fare ai ragazzini. E, come una ragazzina, giocherellava con le punte dei capelli, infilando una mano sotto l’ascella e arricciandole con le dita. Era un po’ nervosa, ma di quella tensione adrenalinica di chi freme per qualcosa di buono che sta per accadere. Le si sentiva nello sguardo luminoso e mobile, le si vedeva nei capelli sistemati involontariamente, ma perfettamente, a colpo di vento. Una mano accarezzava la borsa di pelle turchese e anche un’altra borsa, un sacchetto di boutique con dentro un bikini acquistato nel pomeriggio. Quasi metà giugno e l’estate era ogni giorno più strepitosa.

Si contavano i giorni che mancavano alla partenza per il mare e, in Azzurra, l’attesa assumeva il senso di una specie di rituale che l’accompagnava fin da piccola. Un’eccitazione infantile che era rimasta intatta e illesa, nonostante gli anni di isolata sofferenza e che oggi, a dispetto di tutto, poteva comunque condividere con i suoi bambini. Con la coda del pensiero si ricordò per un attimo che, dopo, doveva andare a prendere Gianluca a una festa e poi, a casa, leggere a Giada il suo libro preferito. Bisognava anche portare Giorgio dal pediatra prima della partenza. Ma adesso c’era un’altra cosa importante da fare: parlare, raccontare, spiegare. E Elisa era lì, di fronte a lei, soltanto per ascoltare altre parole, come, in fondo, nessun altro aveva mai fatto.

«Quella notte, dicevo, ho avuto per la prima volta paura di Andrea. Il gesto di colpirmi, prima ancora di provocarmi dolore, mi ha atterrito. Ho visto la morte in faccia».

«Dimmi perché. Ma pensaci bene».

«Perché la sua espressione, da apatica e introversa, si era fatta feroce. Perché mi era sembrato perdesse il controllo di se stesso. O di riacquistarlo in pieno. Perché, e questa è la cosa peggiore, in quel viso che indossava normalmente una maschera e negli occhi che mutavano attimo dopo attimo rispecchiando a gradi il male della sua anima, ho letto nitido il mefitico piacere di spaventarmi, di minacciarmi, di sottomettermi. Di decidere da solo le regole e i tempi di quel gioco sadico che passava per la mia umiliazione e il mio isolamento».

Elisa la guardò, il viso in un fermo immagine che mostrava i denti ma non sorrideva e gli occhi seri e attenti come quelli di un felino che aspetti che la sua preda esca dalle fronde. Un attimo dopo, Azzurra, le braccia tese e le mani puntate sul tavolo a reggere tutto il corpo, riprese il racconto con le palpebre un po’ strette di chi vuole concentrarsi per affrontare un secondo round.

«Quella notte io ho provato, per la prima volta nella vita, il terrore di un braccio che si alza minaccioso e che ti fa voltare, di scatto, il viso dall’altra parte e chiudere gli occhi, prima di essere inevitabilmente colpito. Quante volte, e tu lo sai, a qualsiasi bambino è capitato di prendere uno schiaffo dalla mamma o dal papà. Si chiudono gli occhi e si scansa il viso e si fa lo stesso quando di schiaffo ce n’è qualcuno di troppo e allora si sussulta anche se la mamma fa un movimento brusco del braccio, magari per aprire la finestra. Ma questa non è ancora la paura di un uomo che ti mette le mani addosso. E io ancora non ne avevo dentro le coordinate, non conoscevo neppure in teoria gli schemi mentali né di chi la subisce né, tanto meno, di chi la infligge. Ero a digiuno della paura, che perciò mi pugnalò alle spalle, mentre la persona che amavo, a tradimento, senza ragione e senza preavviso, mi sferrò un colpo: forte, sordo, cieco. Poi un altro e un altro ancora.

Ma che cos’è la paura, che annoda gambe e braccia e strappa la voce e il respiro a milioni di donne sulla faccia della terra? Difficile decifrarla. Se fosse fatta di materia, sarebbe di ghiaccio. Se avesse un colore, sarebbe nera; ma di una tinta non netta e brillante, un nero livido violaceo. Se avesse un suono, sarebbe quello sinistro di una porta che scricchiola o lo stridere di uno pneumatico in frenata. E il suo odore, se l’avesse, sarebbe quello di un cibo avariato, oppure, in certi casi, l’odore della morte.

La paura di quel momento, di quella prima volta, si è impressa nella memoria della mia emotività, e la ricorderò per sempre. Ma l’ho provata, da allora, tante altre volte, come un rito funebre interiore che si rinnova con la stessa liturgia inesorabile. Ed è stata anche più forte in certe occasioni, perfino più drammatiche, che la vita mi ha poi riservato.

Dopo un po’, ho imparato che con lei non è possibile fare i conti alla pari, perché riesce sempre a collocarsi su un altro piano. Come se potesse volare, mentre i tuoi piedi e la tua testa, all’improvviso, si fanno pesanti. E ho imparato anche che non puoi abituartici, a ospitare la paura dentro l’anima. E che, “dopo”, non sei com’eri prima. Non lo sarai mai più. Perché, ogni volta che lei ti assale, è come se uccidesse qualche piccola parte vitale dentro di te. Che magari, prima, non sapevi neanche di possedere. Ma che se ti viene lacerata, ti lascia un vuoto doloroso, una ferita profonda che ti brucerà a lungo».

Un breve sospiro. Elisa aprì bocca per dire qualcosa, ma si fermò subito e lasciò che Azzurra proseguisse. «Ma non è tutto. Avevo detto che quella notte, dapprima, avevo conosciuto quel tipo di paura. Ma dopo, quando Andrea mi ha lasciato in auto da sola, nelle lunghe ore che restai ad aspettarlo, ne ho conosciuto un’altra, strana e ingannevole. Più sottile, meno violenta, apparentemente più innocua. Ma insidiosa come l’altra, dalla quale nasceva: era, attraverso la paura di lui, la paura del futuro, della vita, di me stessa come persona non capace di reagire con determinazione a quella lucida logica di sopraffazione.

Eppure, quella notte in auto e poi, stesa sul mio letto nelle ore che seguirono l’alba, il mio corpo tentò di ribellarsi ad Andrea e a me stessa: sentii forti brividi nella schiena alla sola idea di doverlo sposare, di trovarmi in qualche modo nelle sue mani, di dovermi esporre per sempre alla spada di Damocle e dei suoi brutali mutamenti d’umore. Potevo ancora salvarmi, ma non lo feci».



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