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Più ambiguità che guerra. L’Iran guarda la crisi in Israele

Secondo Bassiri Tabrizi, Teheran non sembra voler essere coinvolto direttamente nel conflitto. L’Iran intende approcciare la crisi con pragmatismo, oppure prevarrà la linea ideologizzata delle fazioni più reazionaria?

Sulla crisi tra Israele e Hamas, l’Iran vive un dilemma che segna da anni la sua fase storica: ideologia o pragmatismo? Secondo i sostenitori della prima linea, la Repubblica islamica si trova davanti la grande opportunità di poter sferrare un colpo storico contro il nemico esistenziale e geopolitico, Israele, e rinvigorire il suo ruolo internazionale — fiaccato da anni di lento sviluppo economico e sociale causato dai fallimenti del regime. Chi invece cerca il pragmatismo tiene innanzitutto conto delle condizioni del Paese, probabilmente incapace (a livello di tenuta economica e sociale) di affrontare un ingresso in guerra su larga scala, poi comprende che tali limiti potrebbero essere anche tecnici — non fosse altro perché un coinvolgimento diretto iraniano significherebbe un’automatica reazione americana — e infine valuta che in generale la regione vive(va) una fase di distensione che gli altri attori intendo usare per spingere le proprie “Vision”.

Questa linea chiede che Teheran si inserisca nella frenesia diplomatica e sfrutti la situazione per dimostrarsi in grado di partecipare anche su certi tavolo, come per esempio il rilascio di ostaggi. Stando su questa linea, l’Iran dovrebbe collaborare con Russia e Cina, ma anche mostrarsi responsabile con i Paesi sunniti del Golfo. Questi, che non hanno preso le difese di Israele, potrebbero trovare in un tale atteggiamento iraniano una rassicurazione — visto che come con Gerusalemme, sono impegnate in normalizzazioni delle relazioni con Teheran. Da tutto ciò, l’Iran potrebbe trarre benefici molto più profondi (anche in termini di tenuta interna) rispetto a quelli che (non) arriverebbero da una guerra. E potrebbe seguire una serie di processi positivi recentemente innescati nelle sue relazioni internazionali.

In mezzo c’è una posizione condivisa sia dal fronte ideologizzato che da quello pragmatico interno alla Repubblica islamica: impegnarsi militarmente a ruota di Hamas non rischia di far perdere all’Iran il predominio nella narrazione che accompagna da sempre il cosiddetto “asse della resistenza”? L’attacco su Israele non è infatti stato sferrato dai Pasdaran, ma dal gruppo palestinese che è innanzitutto indirizzato verso un jihad per fini locali, e non ha le ambizioni internazionalistiche dei khomeinisti. L’Iran sostiene in vari modi (innanzitutto militarmente) Hamas e i gruppi armati palestinesi, ma lo fa più che altro per la sovrapposizione della lotta a un nemico comune, ma non c’è comunione ideologica (tanto per semplificare, gli iraniani sono sciiti, Hamas è sunnita).

Secondo Aniseh Bassiri Tabrizi, esperta di politica internazionale iraniana e sicurezza mediorientale, Teheran non sembra voler essere coinvolto direttamente nel conflitto. “Per l’Iran, tutto stava andando in una direzione positiva in termini di politica estera. C’è stata la distensione con l’Arabia Saudita siglata dalla Cina, l’ingresso nella Shanghai Cooperation Organization e quello nei Brics. Mosse a sostegno di una linea politica orientata verso Oriente. Poi, per continuare con gli esempi, c’era il negoziato con gli Stati Uniti sul rilascio dei prigionieri e l’accesso a fondi scongelati”.

L’attacco di Hamas ha sconvolto i piani iraniani, anche se si suppongono collegamenti operativi tra Teheran e il gruppo palestinese. “L’Iran — spiega Bassiri — sta mantenendo una strategia di supporto indiretto ad Hamas, ma utilizza la sua consueta strategia di plausible deniability con cui evita di essere identificato come responsabile diretto e, di conseguenza, evita di essere attaccato”.

Su certe scelte c’entra anche la deterrenza americana? “Le operazioni americane, dalle portaerei al blocco dell’accordo per scongelare i fondi iraniani, chiaramente vengono percepite in modo ostile da Teheran. Tuttavia, a meno che non si verifichino grandi cambiamenti negli scenari regionali che comportano la rimodulazione degli obiettivi. sembra che l’Iran continuerà a evitare un coinvolgimento diretto nel conflitto”.

Narrazioni e interessi

Eppure, il ministro degli Esteri iraniano, Amir Abdollahian, ha avvertito lunedì 16 ottobre di una potenziale “azione preventiva” nelle “prossime ore” nella regione per contrastare gli attacchi di Israele a Gaza. Abdollahian ha detto: “I leader della resistenza (l’Iran, ndr) non permetteranno al regime sionista di intraprendere qualsiasi azione a Gaza per poi lasciare Gaza e andare in altri ambiti della resistenza (in Libano, contro Hezbollah, e poi direttamente l’Iran? ndr)”.

Ancora: “Se non difendiamo Gaza oggi, domani dovremo affrontare le bombe al fosforo israeliane negli ospedali pediatrici delle nostre stesse città”. E poi: “Il tempo per soluzioni politiche sta finendo e la possibilità di espandere la guerra si avvicina all’inevitabilità”. Le dichiarazioni del ministro degli Esteri sono state insolitamente schiette, ma potrebbero essere parte di una linea propagandistica, messaggi duri da rivolgere sia al fronte internazionale che (soprattutto) a quello interno.

Tant’è che poi, nelle stesse dichiarazioni, ha aggiunto: “Gli americani ci hanno inviato un messaggio chiedendo moderazione e prevenzione della guerra. Abbiamo risposto che non stiamo cercando di espandere la guerra, ma che la moderazione non è unilaterale. Non si può dire a Hezbollah di frenarsi e poi dire a Netanyahu di compiere qualunque crimine voglia”.

Dalla lettura complessiva dunque, Abdollahian potrebbe intendere che eventualmente Hezbollah compierà “azioni preventive”, ma non l’Iran — che si garantirebbe comunque un livello di quella plausible deniability. Hezbollah ha già scambiato colpi con Israele in questi giorni.

Il gruppo libanese è collegato su vari livelli a Teheran, ma conserva solitamente anche un’agenda di priorità diretta e personale. La Repubblica islamica ha avuto colloqui diretti e di alto livello con Arabia Saudita e Turchia, Abdollahian è stato in Qatar, ed è plausibile che i funzionari iraniani abbiano scambiato vedute con cinesi e russi. Possibile che le staffette diplomatiche (omaniti e svizzere) che tengono i contatti con gli americani siano al lavoro.


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