Non convincono le prese di posizioni “pacifiste” che mirano soltanto a fare il gioco di Hamas. Ma con la stessa franchezza bisogna dire che Israele non deve eccedere. Il commento di Gianfranco Polillo
In principio era stato il Covid. Anno 2020. Una caduta del Pil, in tutte le economie avanzate, che non aveva precedenti negli annali del Fondo monetario. Colpa della Cina? Forse. Chi può dirlo? Fatto sta che la collaborazione di quel Paese, in cui tutto era cominciato, fu vicino allo zero assoluto. Poi fu la volta della Russia. 22 febbraio 2022. Centinaia di carri armati con la lettera “Z” sulle fiancate che invadono l’Ucraina, seminando morte e distruzione. Non è solo una guerra. È il terrore contro i civili, divenuti bersaglio di una giostra impazzita.
È il sistematico abbattimento di ogni struttura civile. Case, condomini, vecchi palazzoni dell’epoca sovietica che cadono come birilli. Abbattuti a cannonate o colpiti con missili lanciati dentro e fuori i confini del teatro di guerra. Ponti e dighe che saltano per allagare i territori. Ospedali che diventano bersagli insieme al municipio o al teatro cittadino. La centrale nucleare di Zaporižžja che rischia di fare la fine di Chernobyl. La più grande acciaieria d’Europa, Azovstal, che è ridotta un ammasso di macerie fumanti. E poi le donne stuprate. Le torture negli scantinati. I bambini rapiti e portati in Russia. Vladimir Putin che si esalta parlando alla tv. La sua non è una guerra, ma una semplice “operazione militare speciale”. Di fatto un intervento brutale come lo era stato quello contro la capitale della Cecenia, Grozny, e quello in Siria ai danni della città di Aleppo. Episodi che l’Occidente, troppo in fretta, aveva dimenticato.
L’Occidente, ma non l’Isis prima e Hamas poi, che quella ferocia hanno assimilato fino a trasformarla nell’arma puntata alla tempia di tutto l’Occidente. Nell’attacco contro Israele c’è stato un po’ di tutto. Quelle centinaia di missili lanciati per saturare le difese dell’Iron Dome, con la stella di David. L’uso di strumenti elettronici per accecare le difese passive. E poi l’invasione dei macellai per uccidere, stuprare, rapire civili inermi. Uomini, donne, bambini in una caccia sanguinaria. Casa per casa. Con l’intento di creare un fossato invalicabile, una frattura insanabile. Per dimostrare che l’unica scelta possibile era quella dello scontro di civiltà. Tra i “dannati della terra” e gli usurpatori. Coloro che, in passato, avevano rubato le terre dei loro padri, con la complicità di tutto l’Occidente.
Bisogna non perdere lucidità nell’analizzare le strategie di Hamas, in più generale contesto internazionale, segnato da un relativismo etico senza precedenti. Strategie che non sono solo militari. Ma in cui la violenza, proprio nella sua peggiore efferatezza, è al servizio della politica. Due gli obiettivi evidenti. Il primo rivolto al popolo palestinese, in prima battuta. Quindi a tutto il mondo arabo. Diventare i capi della resistenza palestinese, dopo aver spazzato via le vecchie posizioni di Al Fatah. Troppo tenero e, forse, troppo vecchio, per rappresentare ancora l’epopea della liberazione. Soprattutto sostituire al suo laicismo la tensione millenarista che può derivare solo dalla rinnovata fede nella Jihad islamica.
Ed ecco allora abbattere i vecchi miti legati alle grandi personalità del passato come Nasser, o all’esperienza del Ba’th, che fu il partito di Saddam Hussein, per legarsi mani e piedi ai Fratelli Musulmani. Quel movimento confessionale che in tutto il mondo arabo, compresa la Tunisia dei nostri giorni (Ennahda), ne aveva funestato l’evoluzione. Fino a programmare e realizzare i grandi delitti, come l’uccisione, nel corso di un attentato, di Al-Sadat, il Presidente egiziano, che alla morte di Nasser, ne aveva preso il posto. Delitto compiuto da un esponente della Jihad islamica egiziana, costola di quella confraternita, per punirlo, colpevole di aver firmato la pace con Israele, dopo la guerra dei sei giorni del 1967.
Scontro solo ideologico? Ma figuriamoci. Non fa parte del DNA di quelle terre. Quello militare tra le due componenti dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina prese corpo nel giugno del 2007, quando le truppe di Hamas conquistarono Gaza, eliminando fisicamente gli esponenti di Al-Fatah. Al punto da costringere Abu Mazen, presidente dell’Olp, dell’Autorità nazionale palestinese e dello Stato di Palestina, a varare un decreto in cui le milizie di Hamas venivano dichiarate fuorilegge. Purtroppo, vox clamantis in deserto, considerato che quei miliziani non solo rimasero a Gaza. Ma questa piccola parte del territorio israeliano divenne l’enclave in cui solo Hamas poteva dettar legge. E compiere operazioni spericolate contro Israele.
Hamas, tuttavia, non era la sola organizzazione fondamentalista. In Libano, presso il confine Sud di Israele una diversa struttura politico – militare aveva preso piede fin dalla metà degli anni Ottanta. A differenza di Hamas di rito sunnita, come sunnita era l’Isis, gli Hezbollah erano e sono sciiti: direttamente collegati con l’Iran, al seguito della guida suprema: lo ayatollah Ali Khamenei. Rispetto ai primi si caratterizzano per la forma partito della loro struttura e per la forza militare che hanno saputo sviluppare: la più potente di tutto il mondo arabo. Il che non fa certo dormire sogni tranquilli. Non a caso, gli Stati Uniti hanno ritenuto opportuno spostare nel Mediterraneo la loro portaerei (Gerald Ford) più avanzata, per controllare la situazione ed evitare effetti indesiderati. Il rischio è che Israele possa indebolirsi, e prestare il fianco a un assalto a tenaglia da parte dei due eserciti nemici. Concorrenti sul piano religioso, ma uniti come sono nel desiderio di distruggerla.
Da un punto di vista politico, la relativa emarginazione di Al-Fatah e la compresenza sulla scena di due forze irriducibili, come quelle indicate, hanno cambiato il volto e la storia di quel lembo di terra. Non siamo più di fronte a realtà statuali che cercano, seppure con grande fatica e contraddizioni, una coesistenza pacifica. Come quella che si era realizzata nel moltiplicarsi degli accordi: con l’Egitto, la Giordania, il Marocco, gli Emirati Arabi Uniti (Accordi di Abramo). E ultimamente quello più importante di tutti con l’Arabia Saudita, considerato il ruolo che quel Paese ha sia da un punto di vista economico, ma soprattutto politico-religioso nei confronti della comunità sunnita. Circostanza che spiegherebbe l’attacco di Hamas e la sua inusitata violenza.
Oggi lo scontro tra le organizzazioni terroristiche di Hamas e Hezbollah nei confronti di Israele ha assunto le caratteristiche dello “scontro di civiltà”. Di qualcosa cioè che non mira solo a risolvere seppure in modo cruento una vicenda storica, ma a sostituire la logica della Jihad a quella del normale rapporto tra Stati. Il che, se da un lato giustifica la reazione degli israeliani, dall’altro fornisce la chiave per comprendere come gli altri Paesi arabi si siano dimostrati più che freddi di fronte alla nuova scorreria. E come le stesse masse arabe, chiamate a partecipare alla “giornata della rabbia”, non siano andate oltre, con la loro partecipazione, il “minimo sindacale”. Indubbiamente Israele non è amata, ma il richiamo fondamentalista che è all’origine delle tante tragedie che hanno colpito il mondo arabo – dalla Siria al Libano passando per l’Iraq ed il califfato jihadista – fa molto più paura.
Questo quindi lo scenario per comprendere i movimenti più sotterranei di un mondo in cui il terrorismo non sembra più avere la forza di un tempo. Dalla Siria alla Libia esso vive soprattutto di riflesso. All’ombra delle nuove potenze imperialiste come possono essere la Russia, l’Iran o la stessa Cina. Ed ecco allora che nella strategia Hamas è entrata anche questa componente. Far dimenticare l’Ucraina, come ha ricordato Volodymyr Zelensky. Ma soprattutto cercare di indebolire la posizione internazionale di Israele. E con essa quella di tutto l’Occidente.
Facile il gioco. Costringere le truppe dello Stato ebraico ad intervenire militarmente nella striscia di Gaza, dopo averla bombardata duramente, per aprire la strada ai carri armati. Nel frattempo, impedire, come in parte hanno tentato, agli abitanti di spostarsi verso il Sud del Paese, al fine di usarli come scudi umani. Il tutto per mostrare al mondo quello che, secondo loro, sarebbe il vero volto del “sionismo” e produrre le necessarie reazioni di rigetto da parte dell’intera opinione pubblica mondiale. Fenomeni che in parte si sono già manifestati basti pensare alla reazione dell’Onu di fronte al semplice assedio della striscia di Gaza.
Bisogna non cadere nella trappola. Essere consapevoli del fatto che Israele reagisce non tanto in omaggio alla legge del taglione, (c’è anche questa componente) quanto per la necessaria deterrenza. Non farlo l’avrebbe trasformata in una “tigre di carta”, come si diceva al tempo di Mao Tze Tung. Con tutte le inevitabili conseguenze per la sua futura sicurezza. Per questo motivo non convincono le prese di posizioni “pacifiste”. Mirano soltanto a fare il gioco di Hamas e di chi vorrebbe compiere il primo passo, che potrebbe portare alla distruzione di Israele.
Con la stessa franchezza, tuttavia, bisogna dire che Israele non deve eccedere. Deve centellinare l’uso della forza, per contenerne al massimo gli effetti collaterali. Forse ci vorrà più tempo per colpire al cuore i terroristi di Hamas. Ma sarà quel tempo che dimostrerà ancora una volta la statura di un popolo che vorrebbe vivere in pace, ma che è costretto a entrare nella spirale della violenza solo per evitare il proprio annientamento.