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La questione Israele marca le divisioni in Libia (ce ne fosse bisogno)

Le varie posizioni all’interno della Libia cercano di sfruttare la crisi militare in Medio Oriente a proprio interesse. Nel Paese è in corso un riassetto di potere che presto potrebbe portare novità (e squilibri)

La guerra tra Israele e Hamas e la situazione di Gaza attirano l’interesse internazionale toccando leve delicate, che vanno dal contesto storico-culturale (dunque ideologico) a quello delle relazioni tra stati⁩ (dunque strategico). I riflessi di ciò che sta accadendo hanno un significato in determinati equilibri, e tra questi era quasi atteso che venissero sensibilizzati quelli libici — da oltre un decennio altamente precari. Tra l’altro, il Paese ha già in passato ospitato confronti per procura, ed è incline tanto alle narrazioni globali (come quelle riguardanti lo scontro tra modelli) che alle divisioni interne (tra fazioni politiche e armate che si comportano sempre più come clan malavitosi interessati soltanto alla protezione dei propri interessi).

Contro Israele, contro gli occidentali

È con questa scenografia che vanno lette le due recenti uscite anti-occidentali sulla situazione in Israele. La prima è arrivata dalla Camera dei Rappresentanti di Tobruk, il parlamento eletto nel 2014 e auto esiliatosi nell’Est del Paese in questo decennio travagliato in cui non si è riusciti a stabilizzare le divisioni e intavolare un nuovo percorso elettorale. Poi dall’Alto consiglio di stato, organo consultivo con sede a Tripoli creato per bilanciare l’esposizione del parlamento alle istanze della Cirenaica e proteggere gli interessi della Tripolitania.

In sostanza, entrambi i corpi legislativi chiedono di interrompere i rapporti con alcuni Paesi, colpevoli di essere troppo vicini a Israele. Mercoledì, la Camera, con una comunicazione dalla strana formalità (attribuita ma non firmata) ha invitato gli ambasciatori di Italia, Germania, Francia, Regno Unito e Stati Uniti a lasciare la Libia. Giovedì, il Consiglio si è rimesso in pari, con una propria dichiarazione in cui invita il governo a “tagliare i legami con i Paesi (generico, senza indicarli, ndr) che sostengono l’entità sionista, Israele, fermando l’esportazione di gas e petrolio verso di loro, boicottando i loro prodotti e sospendendo i rapporti con i loro ambasciatori fino a quando non verrà fermata la brutale aggressione contro Gaza”.

Si tratta di prese di posizione senza un seguito diretto, spiega una fonte libica, “perché i due organi hanno un potere relativo sul Gnu”. Il Gnu è il Governo di unità nazionale guidato da Abdelhamid Dabaiba. Con sede a Tripoli e operativo sotto un incarico delle Nazioni Unite — ormai scaduto perché è stato mancato l’obiettivo fissato delle elezioni, sia nel 2021 che nel 2022 e 2023 — il Gnu ha una capacità di esercitare potere molto limitata. E automaticamente, non riconosciuto dalla parte centro-orientale e meridionale del Paese, e con poco contatto con istituzioni come la Camera, l’esecutivo agisce ascoltando gli organi legislativo e consultivo solo relativamente.

“Lo fanno per mettere in difficoltà Dabaiba, che è già precario, e sfruttano di nuovo la questione Israele, perché in grado di infiammare le piazze”, aggiunge la fonte. Dice “di nuovo” perché già ad agosto Dabaiba era andato in difficoltà su una questione che lo coinvolgeva (in modo più diretto) con Israele. L’allora ministra degli Esteri, Najla Mangoush, aveva incontrato a Roma il collega israeliano Eli Cohen: sembrava un meeting propedeutico alla normalizzazione con Gerusalemme (in stile Accordi di Abramo) e le tante opposizioni libiche avevano usato la situazione per attaccare pesantemente il premier, il quale a sua volta si era trovato costretto a togliere le deleghe a Mangoush.

Dabaiba ha più poco potere

Dabaiba per ora non sembrerebbe interessato a dar seguito alle richieste di Camera e Consiglio, e la posizione affidata al ministro degli Esteri facente funzione (al posto di Mangoush) è stata in linea con altre prese dal mondo arabo. Ossia orientata a non mancare nella retorica a favore della causa palestinese (anche perché può essere usata come vettore contro le leadership). Una mossa per non perdere distanza da nessuna delle componenti di questa complessa partita, con la consapevolezza per il premier di un immenso bisogno di riconoscimento e supporto internazionale.

Che si sia trattato di colpi incrociati al governo, e che l’esecutivo per ora non abbia intenzione di agire, lo dimostra il procedere di riunioni e incontri come quello del Working Group italo-libico sulla sicurezza, che si è tenuto (per la terza volta) a Roma nei giorni scorsi. O la visita di Anne Witkowsky, assistente del segretario di Stato per le Operazioni di Conflitto e Stabilizzazione, e dell’Inviato Speciale, l’ambasciatore Richard Norland (che normalmente è basato a Tunisi per ragioni di sicurezza).

I due funzionari americani sono stati ricevuti dal Consiglio presidenziale, che è l’organo di riferimento del processo di stabilizzazione avviato tre anni fa dalle Nazioni Unite – ossia quando è stato costruito il cessate il fuoco all’assalto tentato dai miliziani della Cirenaica al precedente governo onusiano. State Department comunica che Witkowksy è voluta andare in Libia per esprimere l’impegno dell’amministrazione Biden nell’ambito della “Strategy to Prevent Conflict and Promote Stability in Libya”.

L’americana ha ribadito l’impegno degli Stati Uniti ad aiutare “le istituzioni e gli individui libici nel perseguimento della pace, della prosperità e della rappresentanza democratica, sottolineando l’importanza di includere i gruppi sottorappresentati, comprese le donne”. L’aspetto particolare è nel contatto diretto con il Consiglio presidenziale, guidato da Mohammed al Menfi, con cui ha stretto le attività operative anche Abdoulaye Bathily, Inviato Speciale dell’Onu – che la scorsa settimana ha ragguagliato il Consiglio di Sicurezza sull’aumento dell’instabilità e dell’insicurezza libica.

Anche sfruttando il contesto critico prodotto dalla devastante alluvione di Derna, gli Stati Uniti hanno aumentato le loro attività diplomatiche sulla Libia. Il piano americano riguarda la sistemazione dello stallo interno attraverso il processo elettorale, che potrebbe essere condotto da un governo diverso dall’attuale (considerato ormai giunto al capolinea). Successivamente (e contemporaneamente), Washington sta lavorando con il fronte orientale per sganciare le dipendenze della famiglia Haftar dalla Wagner, che ha sfruttato gli accordi con la milizia di Bengasi per spingere operazioni e attività anti-occidentali.

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