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L’ordine mondiale si sta disgregando e ora? L’analisi dell’amb. Castellaneta

Dobbiamo arrenderci, una volta per tutte, al fatto che il mondo non è più bipolare e che la distribuzione del potere che aveva caratterizzato la Guerra Fredda non tornerà più. Il mondo si sta sempre più ricostituendo e riorganizzando secondo uno schema multipolare. È compito della diplomazia riuscire a contenere gli elementi di frizione e di crisi entro binari accettabili. Il commento di Giovanni Castellaneta, già consigliere diplomatico a Palazzo Chigi e ambasciatore negli Stati Uniti

In questo periodo i commentatori di politica internazionale continuano a parlare di cigni neri, poli-crisi, terza guerra mondiale “a pezzi” oppure “a bassa intensità”, cercando definizioni creative che riescano a descrivere l’eccezionalità dei tempi che stiamo vivendo. Effettivamente, dallo scoppio della pandemia di Covid-19 le vicende globali hanno visto un susseguirsi di eventi improvvisi e più o meno inattesi, che hanno contribuito ad aumentare il grado di incertezza geopolitica rendendo molto difficile – se non addirittura impossibile – fare previsioni attendibili che rientrino all’interno di schemi concettuali e interpretativi predefiniti.

È probabile che anche i prossimi anni saranno caratterizzati da queste dinamiche, dovute però non soltanto agli eventi inaspettati (che possono fare piuttosto da detonatore per elementi che covano sotto la cenere) ma piuttosto ad un cambiamento strutturale dell’architettura mondiale. Penso infatti che dobbiamo arrenderci, una volta per tutte, al fatto che il mondo non è più bipolare e che la distribuzione del potere che aveva caratterizzato la Guerra Fredda non tornerà più. Il muro di Berlino è caduto definitivamente, lasciando spazio ad un mondo che si sta sempre più ricostituendo e riorganizzando secondo uno schema multipolare. Tale processo, però, non è ancora terminato ed è per questo che il “viaggio” verso la definizione e il consolidamento di questo nuovo assetto è caratterizzato da instabilità e crisi di diverso tipo. La disgregazione dell’ordine mondiale precedente – che era stata rallentata negli anni Novanta del secolo scorso dall’egemonia degli Stati Uniti, unica superpotenza rimasta sul pianeta – si raffigura come una sorta di “vulcano” che, attraverso una serie di eruzioni continue rappresentate dai singoli elementi di crisi, porterà ad una nuova fase di equilibrio e riposo. Un equilibrio che sarà però diverso rispetto a quello cui eravamo abituati e che vedrà gli Stati Uniti e l’Occidente insieme al Giappone, affiancati dalla Cina, dal Grande Medio Oriente dalla Turchia ai Paesi del Golfo passando per l’Iran e in seguito anche dall’India, la cui potenza demografica potrebbe preludere finalmente anche a un suo vero “boom” geopolitico, oltre che economico.

Questo percorso non è lineare ma anzi si sta rivelando piuttosto accidentato. È compito della diplomazia riuscire a contenere gli elementi di frizione e di crisi entro binari accettabili, che non facciano deragliare il quadro internazionale mantenendo il livello di conflittualità entro soglie, per così dire, “fisiologiche”. È quasi superfluo affermare che il momento attuale è caratterizzato da un “surplus” di tensioni geopolitiche, e dunque è proprio ora che servirebbero sforzi maggiori da parte della comunità internazionale per evitare che il mondo scivoli su un crinale pericoloso che potrebbe portare ad una guerra di proporzioni mondiali e non più a una moltitudine di conflitti di carattere locale o regionale. La guerra in Ucraina e quella tra Israele e Hamas rappresentano la punta dell’iceberg di una serie di crisi che, dall’Africa sub-sahariana fino a Taiwan passando per il Mediterraneo allargato, potrebbero provocare un’eccessiva destabilizzazione dell’ordine mondiale.

In un contesto in cui le organizzazioni internazionali – e le Nazioni Unite in particolare, sempre più bisognoso di una profonda riforma – si stanno rivelando sempre più inadeguati a gestire le molteplici crisi sparse nelle varie regioni del pianeta, tocca agli Stati investire nel dialogo per trovare compromessi accettabili e in grado di rispondere agli interessi delle parti in causa. Ecco perché l’Italia, ancorata fortemente nelle comuni radici di civiltà, potrebbe giocare un ruolo da protagonista in una fase così delicata per l’intera regione del Mediterraneo. Il nostro Paese, per la sua posizione geografica e per i forti interessi economici e strategici nell’area, è più esposto di altri all’instabilità che caratterizza questo periodo. Sarebbe dunque auspicabile da parte di tutte le forze in campo, una maggiore assunzione di responsabilità e di leadership, assecondando la strategia della Presidente Meloni e  del Ministro Tajani, che faccia leva sulla nostra tradizionale linea equilibrata nei confronti degli attori attivi nell’area: una politica del dialogo che non abdichi però ai nostri principi basati sul rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani e che sappia dotarsi dell’ hard e del soft power indispensabile per attuarla. Potremo essere così finalmente un interlocutore privilegiato con gli Stati del Nordafrica e del Medio Oriente e tutta la regione balcanica ritagliandoci un posto importante nel percorso di stabilizzazione nell’area nella quale godiamo di obiettive posizioni di preminenza. Parafrasando quanto si diceva una volta per i Balcani occidentali, il Mondo sta oggi producendo più storia di quanto ne possa consumare. Sta a noi incanalare queste energie verso obiettivi condivisi e di reciproco interesse.

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