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Il mito dello spread smontato. Perché non c’è ancora un allarme debito

In questi giorni si sono cominciate a sentire le prime sirene sulla tenuta del debito italiano e sul crescente nervosismo dei mercati. Ma i numeri dimostrano il contrario, i rendimenti crescono per tutti, non solo per Roma. La prudenza finora ha pagato e la Germania ha poco da stare tranquilla

Era il 2012, l’Italia allora affidata a Mario Monti dopo la caduta di Silvio Berlusconi nel novembre dell’anno prima, tentava la lenta risalita dall’abisso del debito. Lo spread tra Btp e Bund tedeschi non era più ai 560 punti base che portarono lo Stivale a un passo dalla bancarotta, ma nemmeno al di sotto di quota 200, come è oggi.

Eppure, e si ritorna all’attualità, martedì il rendimento dei titoli del Tesoro italiani a dieci anni è salito ai massimi proprio dal 2012, arrivando a toccare il 4,93%, portando lo spread a quota 197,7 punti base. Non è tutto. Anche i rendimenti dei Bund decennali tedeschi sono saliti, ai massimi dal 2011. Dunque, prima considerazione: anche la Germania che predica rigore da oltre dieci anni non è immune dal rialzo dei rendimenti sui suoi titoli, che rimangono il benchmark del debito dei Paesi membri dell’Ue. Non è un caso che il costo del debito tedesco (2.368 miliardi contro i 2.765 italiani), abbia cominciato a lievitare proprio quando i principali istituti di statistica teutonici stanno per certificare una contrazione dell’economia tedesca dello 0,6% nel 2023.

Poi c’è un altro aspetto, che guarda più all’Italia. Se si prende la curva del differenziale di rendimento tra i Btp italiani e i bund tedeschi, si capisce come nell’ottobre del 2022 lo spread oscillava tra i 244 e i 205 punti base, quasi 50 punti in più rispetto ad oggi, per poi rimanere nel corso di un anno intero saldamente ancorato sotto quota 200. Eppure, nel corso di 365 giorni, il governo di Giorgia Meloni ne ha avute di occasioni per innervosire i mercati che prestano all’Italia ogni anno tra i 300 e i 400 miliardi di euro, co-finanziando la spesa pubblica. A cominciare dal Def dello scorso aprile, che inchiodò la crescita di quest’anno all’1% (ora rivista al ribasso allo 0,8%), non certo un dato esaltante ma certamente verosimile.

Insomma, i numeri non giustificano nessun allarme rosso (l’exploit del Btp valore sta lì a dimostrarlo: la seconda giornata del collocamento si è conclusa con una raccolta di 4,5 miliardi di euro i quali, aggiunti ai 4,8 miliardi circa di sottoscrizioni del 2 ottobre, restituiscono un totale prossimo ai 9,3 miliardi di euro). E poi ci sono altri due elementi da mettere nel conto. Primo, il deficit quest’anno (quello italiano salirà al 5,2% ma solo perché dopato dal Superbonus) lo faranno tutti, a cominciare da Berlino (nel 2024 il disavanzo tedesco dovrebbe attestarsi sugli 85 miliardi). E poi c’è l’effetto tassi: i deficit elevati in tutto l’Occidente, l’inflazione in calo ma troppo lentamente e l’impressione che le banche centrali terranno i tassi alti a lungo pesa sui rendimenti di tutti gli emittenti di debito, Italia e Germania incluse.

Certo, su un Paese indebitato come l’Italia un po’ di più. Per questo l’esecutivo punta a mettere a terra una manovra da 20 miliardi, tutto sommato contenuta, di cui 15 miliardi a deficit, senza abbandonarsi alle alchimie e agli esperimenti contabili. Senza considerare che, anche in previsione di una maggiore richiesta di sostegno dal mercato, il Tesoro ha ricalibrato il calendario delle aste: altre 17 in programma fino a fine anno e 383 miliardi di euro di titoli in scadenza nei prossimi 12 mesi (escludendo le aste già tenute a settembre). No, non è ancora il tempo delle sirene.


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