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Militare, ma non solo. La resilienza del Baltico vista dal Cepa

Petrolio

La minaccia russa nei confronti dell’area del Mar Baltico è oggi fortissima. Il processo di rafforzamento avviato dai Paesi della regione, per quanto necessario, non è tuttavia sufficiente. Ecco a quali orizzonti si deve guardare

La sicurezza nel Baltico assume nuove forme. Su impulso dell’invasione su larga scala dell’Ucraina avviata nel febbraio 2022, gli Stati che si affacciano sul bacino in questione hanno avviato due processi paralleli, uno di rafforzamento delle proprie capacità militari e l’altro di integrazione reciproca delle suddette capacità. L’intento finale è quello di riuscire ad esercitare un grado di deterrenza sufficiente a scoraggiare colpi di mano militari da parte di Mosca, la quale però potrebbe mettere in atto strategie specifiche per sfruttare le debolezze di questa architettura. La questione viene affrontata ampiamente in un report del Center for European Policy Analysis, scritto da Edward Lucas, Catherine Sendak, Charlotta Collén, Jan Kallberg e Krista Viksnins.

Nel documento viene sottolineata una repentina inversione di tendenza all’interno della dimensione militare da parte dei Paesi della regione baltica. Nel periodo successivo alla fine della guerra fredda la quasi totalità degli attori regionali aveva avviato una rivisitazione della propria struttura militare, riducendone le dimensioni e incrementandone il grado di professionalizzazione, rendendolo così più adatto per realizzare operazioni chirurgiche in teatri esteri; unica eccezione era la Finlandia, che aveva invece deciso di mantenere il cosiddetto approccio di “comprehensive security”, basato sul sistema di coscrizione e sulla presenze estensiva di riservisti. Ma la rinnovata aggressività dimostrata da Mosca negli ultimi anni ha fatto sì che i governi di questi Paesi perseguissero un’espansione delle proprie forze armate, incrementandone sia la dimensione che gli armamenti a disposizione. L’integrazione della Finlandia, così quella apparentemente ormai prossima della Svezia, ha rafforzato ulteriormente la capacità difensiva generale, tramite un processo di integrazione delle capacità militari che ha agito da force multiplier.

L’intenzione è quella di sviluppare un sufficiente grado di resilienza militare: la capacità di sostenere un combattimento, oltre alla forza, all’abilità e alle capacità di presentare rischi e dilemmi a un avversario. Il quale però dispone dell’iniziativa. Con il pretesto di esercitazioni in tempo di pace o come dimostrazione di forza, la Federazione Russa può contingenti militari in prossimità degli stati confinanti, aumentando il pericolo di un attacco improvviso. Che può assumere forme diametralmente opposte, ma altrettanto pericolose. L’occupazione simbolica di una porzione minima di territorio, come un’isola nel Golfo di Finlandia o un’area non popolata appena oltre il confine con la Russia, potrebbe far sorgere in alcune capitali occidentali il dubbio sulla legittimità di una risposta militare su larga scala. Alcuni alleati insisterebbero per entrare in guerra per difendere il principio dell’integrità territoriale, mentre altri potrebbero sollecitare una soluzione negoziata. Al contrario, un attacco su larga scala ben pianificato ed eseguito altrettanto efficacemente, che comporti la decapitazione della leadership, la distruzione di risorse militari chiave l’occupazione di un territorio più ampio e strategicamente importante (come potrebbe la chiusura del Suwalki Gap) solleverebbe la questione dell’effettiva fattibilità di un’azione di riconquista di quel territorio, al netto delle condizioni logistiche e delle capacità difensive del nemico.

Per scongiurare il verificarsi di simili occasioni, è necessario che l’Alleanza Atlantica si adoperi a realizzare una pianificazione dettagliata che possa toccare ogni contingenza, anche quella meno verosimile, così da evitare tentennamenti nella fase di reazione, tentennamenti che potrebbero rivelarsi fatali. Con alcuni aspetti ‘centrali’ che siano comuni a tutti gli scenari evocati come la neutralizzazione degli asset militari russi nell’exclave di Kaliningrad, capaci di minacciare ogni eventuale azione da parte delle forze militari alleate nel settore; o ancora, l’utilizzo sinergico delle capacità difensive nazionali in una struttura pluri-stratificata.

Ma l’aspetto militare non è tutto. Al fine di garantire un sufficiente livello di sicurezza è necessario sviluppare una capacità di resilienza anche all’interno della società civile, andando ad agire su una serie di aspetti tanto fisici quanto psicologici. Nella prima categoria rientrano la sicurezza energetica, la creazione di depositi di rifornimenti di emergenza e il potenziamento del sistema infrastrutturale, al fine di renderlo capace di resistere ad attacchi cinetici e/o cibernetici. La seconda categoria include invece l’information security, la coesione sociale, la coscienza della minaccia esistente e la conseguente ‘istituzionalizzazione’ della reazione al verificarsi della stessa. Questi elementi sono già presenti nella regione, anche se con un forte grado di differenza nello sviluppo di ciascuno di essi nei differenti Paesi. Stabilire degli standard minimi a cui puntare sarebbe già un primo passo, ma ci si può spingere oltre, mirando alla creazione di un sistema transnazionale di resilienza.

Un obiettivo raggiungibile agendo su diverse direttrici. Un sistema di benchmarking reciproco, ad esempio, permetterebbe di individuare modelli di eccellenza nei singoli Stati riguardo ai vari aspetti che contribuiscono alla resilienza (Sistema di immagazzinamento scorte; programmi di formazione sia specialistici che generalisti; esercitazioni locali, regionali e nazionali; campagne di comunicazione al pubblico; valutazione della consapevolezza del pubblico per categorie demografiche, socioeconomiche e di altro tipo), spingendo gli altri Paesi a guardare a queste eccellenze come modello per sviluppare le proprie capacità. O ancora, l’istituzione di processi formali di ‘scambio’ di expertise e lo sviluppo di una redundancy di queste capacità a livello interstatale, così da prevenire il verificarsi di eventuali ‘falle’.

Provvedimenti che comportano un costo sociale ed economico, un costo che tuttavia è necessario sobbarcarsi per tutelare la propria sovranità e la propria indipendenza. Ma che può, e deve, essere ridiviso tra i vari attori coinvolti, secondo il principio “broadest shoulders bear the biggest burdens”: gli Stati con maggiori risorse dovranno spendere di più in proporzione, rafforzando così anche le capacità dei Paesi vicini che potranno così contribuire alla sicurezza generale dell’area.

Uno sforzo congiunto e coordinato è dunque la chiave per dotarsi degli strumenti necessari a mantenere il livello di resilienza, militare e non, che non solo permetterebbe di resistere più facilmente ad un’eventuale aggressione da parte di Mosca, ma permetterebbe di prevenirla secondo il fondamentale concetto di deterrence by denial.

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