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Nel Sahel in fiamme il problema è sempre di più il terrorismo

Negli ultimi cinque giorni il Sahel è stato protagonista di movimenti dei gruppi jihadisti di rilievo. Il terrorismo, e il tema sicurezza correlato, è il grande problema della regione, tra colpi di Stato, interventi esterni e idee per (improbabili?) campagne militari dell’Ecowas

Mesi prima del colpo di stato militare di luglio in Niger, funzionari dell’antiterrorismo americano hanno visitato l’ambasciata statunitense a Niamey: temevano che l’incapacità del governo nigerino di far fronte all’avanzata dei gruppi ribelli avrebbe potuto produrre il presupposto perché i militari (o qualcun altro) prendessero l’iniziativa con un rovesciamento istituzionale.

Secondo quanto riportato dal solitamente informatissimo “Spy Talk”, il capo della stazione della Cia nigerina aveva respinto con sicurezza l’idea, certo che non sarebbe successo, sicuro che il presidente Mohamed Bazoum non avrebbe avuto problemi. Spy Talk è lo spazio Substak in cui Jeff Stein, veterano dell’informazione sull’intelligence, raccoglie insights e una serie di contributi informati da esperti del settore. Quanto scritto non è chiaramente confermabile, ma solitamente affidabile.

Anche perché certe considerazioni non sono nuove. Per esempio, a metà agosto la NBC ha pubblicato un pezzo in cui la giornalista Courtney Kube raccontava di aver ricevuto un briefing all’ambasciata di Niamey la mattina del 25 luglio nel quale i diplomatici americani assicuravano che, nonostante la reputazione di non essere troppo trasparente, il governo nigerino era ancora molto più stabile di altri in Africa occidentale. Poche ore dopo i militari hanno rovesciato Bazoum e il suo esecutivo.

Percezioni e abbagli

Nonostante gli sforzi dell’amministrazione Biden per rafforzare le relazioni con i governi africani, l’intelligence statunitense rimane principalmente concentrata sull’antiterrorismo nella regione del Sahel, piuttosto che sulle dispute politiche interne o sulle tensioni tra i militari. Anche per questo a volte è “blindsided”, accecata, per usare il termine che la NBC ha messo nel titolo del pezzo Kube. Ossia non vede quello che accade a 360°.

Oppure manca una sintonizzazione, perché mai come nel Sahel in questo periodo, i due dossier – stabilità interna e lotta al terrorismo – sono connessi. E non è possibile parlare di sviluppo regionale senza prima affrontare la questione securitaria. Il problema della sicurezza è percepito come centrale, esistenziale da quelle collettività, e dunque dal sistema economico e sociale, tanto quanto dalla politica. I golpe che abbiamo visto in Mali, Burkina Faso, Niger sono tutti connessi all’incapacità dei governi di affrontare l’emergenza securitaria legata alla crescita dirompente dell’insorgenza jihadista.

A questi si abbinano questioni laterali quanto sostanziali. Per esempio: negli ultimi cinque anni, le forze occidentali che hanno appoggiato Niamey, o prima Bamako o Ouagadougou, essenzialmente composte da unità statunitensi ed europee (soprattutto francesi, che tra l’altro stanno iniziando il ritiro dopo una permanenza storica in Niger), non solo non hanno respinto le milizie jihadiste, ma non sono riuscite nemmeno a contenerle.

A questo si abbina la narrazione velenosa russa. Mosca ha fatto in modo di farsi percepire come alternativa per la sicurezza, spingendo gruppi di potere a rovesciare le istituzioni; costruendo una narrazione anti-occidentale a usufrutto delle masse disperate, basata anche sull’incapacità occidentale di migliorare il contesto; offrendo l’assistenza di realtà ibride come la Wagner, non in grado di fronteggiare l’avanzata jihadista ma di operazioni simboliche e soprattutto utili ai golpisti.

L’avanzata jihadista

Se si guarda agli ultimi cinque giorni, la regione si dimostra sul punto di un potenziale “collasso esponenziale” (così lo definisce Charles Lister, uno dei più importanti esperti di terrorismo nel mondo). Breve recap: lo Stato islamico (che nella regione si fa chiamare Islamic State in the Greater Sahara, Isgs) sembra aver ucciso circa 100 soldati in Niger in attacchi multipli e massicci; i combattenti tuareg hanno ucciso più di 100 soldati in Mali, conquistando una città e una base militare; l’Isgs ha assediato Menaka, sempre in Mali, mentre Al Qaeda sta assediando Timbuktu; i dati più recenti dicono che l’avanzata jihadista ha prodotto 15000 morti in Burkina Faso dal 2015, ma di questi 6000 solo nell’ultimo anno (ossia da quando il Paese è gestito dai golpisti).

Dario Cristiani del Gmf, in un’analisi pubblicata a inizio settembre su Affari Internazionali, spiegava perché il colpo di stato in Niger avrebbe aperto nuove possibilità al terrorismo nel Sahel. “La rivalità tra i gruppi qaedisti e dello Stato Islamico porta entrambe le fazioni a vedere nel colpo di stato un’opportunità per riportare anche qualche vittoria sui propri rivali”, spiega Cristiani. Ma allo stesso tempo, poteva anche diventare l’occasione perfetta per un qualche allineamento. Un’ipotetica unione delle forze rischia di accrescere la problematica esponenzialmente, perché la competizione intra-jihadismo, legata alla divisione ideologica storica tra qaedisti e baghdadisti, ha limitato le capacità dei gruppi.

Nel Sahel si sta creando una situazione simile a quella siriana dopo i primi due anni di guerra civile. Gli Stati sono disarticolati, le popolazioni insoddisfatte, le narrazioni avvelenate, i gruppi jihadisti creano proseliti e guadagnano terreno. Il leader golpista del Burkina Faso, il capitano Ibrahim Traoré, in occasione dell’anniversario dello scacco al potere ha sottolineato in Tv che nel suo governo la sicurezza ha la precedenza sulle elezioni. Traoré, che a 34 anni è diventato il più giovane presidente del mondo, aveva inizialmente promesso un ritorno alla democrazia con elezioni entro il luglio 2024. Tuttavia, ha ora annunciato piani per una “modifica parziale” della costituzione del Paese.

Dall’ascesa al potere dei militari, in Burkina Faso si sono intensificati i problemi di sicurezza a causa delle insurrezioni jihadiste. Un analista locale spiega in forma confidenziale che le recenti azioni di Traoré indicano una volontà di consolidamento, che potrebbe portare a un giro di vite su varie fazioni dell’esercito, sui media e sui gruppi della società civile. Se la permanenza al potere dipende dalla lotta contro le insurrezioni jihadiste, allora qualcuno all’interno di giunte golpiste come quella di Traoré potrebbe sfruttare il contesto per allungare i tempi.

Le giunte militari e il contesto regionale che tocca anche l’Italia

Non è un caso se giornalisti occidentali (soprattutto francesi) vengono cacciati da questi Paesi, che nel frattempo interrompono anche altri tipi di relazioni – come quelle militari e i dialoghi di carattere politico – mentre approfondiscono i rapporti con governi come quello russo o iraniano, più orientati al proprio interesse diretto. La giunta militare in Mali ha per esempio rinviato le elezioni presidenziali, mentre il piano di transizione proposto dalla giunta del Niger è stato respinto dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) perché già orientato a un orizzonte temporale troppo lungo.

Ma mentre le giunte hanno usato la scusa del terrorismo per l’ascesa personale (o di un gruppo socio-etnico), e ora pensano al mantenimento del potere, gli attacchi jihadisti stanno provocando migliaia di vittime e una situazione umanitaria disastrosa, tra cui le difficoltà di approvvigionamento di materie prime vitali (4,6 milioni di persone hanno necessità di aiuto), o l’interruzione dell’istruzione per quasi 1 milione di studenti (stando a uno studio del Norwegian Refugees Council). Questo porta a una condizione ciclica: non risolta la causa, si possono innescare dinamiche successive come in Mali, dove la giunta golpista è stata rimossa da un’altra giunta golpista arrivata al potere con stesse narrazioni, meccanismi e ambizioni della precedente.

Le sfide alla sicurezza della regione hanno portato anche a un notevole afflusso di rifugiati nelle nazioni costiere vicine, con oltre 60.000 rifugiati burkinabé che cercano sicurezza in Costa d’Avorio, Togo, Ghana e Benin. Le turbolenze della regione del Sahel hanno anche portato all’aumento di fenomeni migratori extra regionali, con rifugiati che cercano asilo in Nord Africa e in Europa. Secondo i dati della dashboard dell’Unhcr, Guinea (un altro stato destabilizzato), Mali e Burkina Faso sono i Paesi da cui sono arrivati più migranti in Italia nella prima metà dell’anno.

Alcuni esperti di sicurezza ritengono che la situazione possa essere risolta solo attraverso l’intervento radicale dell’Unione africana o dell’Ecowas. Ma gli sforzi diplomatici dell’Ecowas, il più forte organismo regionale del continente, si sono in gran parte fermati di fronte a regimi militari sempre meno disponibili al confronto. “Le potenze occidentali probabilmente daranno la priorità a fornire assistenza militare agli stati costieri dell’Africa occidentale come Senegal, Ghana e Costa d’Avorio”, ha detto, parlando su “Africa Brief” di Foreign Policy, Mucahid Durmaz, analista senior presso la società di rischio londinese Verisk Maplecroft.

Stanno comparendo anche spaccature tra gli 11 Stati membri dell’Ecowas e l’Unione africana: ci sono coloro che temono che la violenza nei Paesi interessati da colpi di Stato e diffusione jihadista abbia ormai attraversato i loro confini, come la Costa d’Avorio e il Senegal, e quindi sono a favore dell’azione militare. Altri Paesi, come il Ghana e la Nigeria, stanno affrontando un respingimento politico interno per i timori che qualsiasi impegno militare per contenere il disordine all’estero possa scatenare un’ondata di instabilità in patria – da ricordare ad esempio che la Nigeria, principale potenza regionale, è essa stessa oggetto di un’insorgenza jihadista che dura da un paio diversi anni.


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