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Perché Taiwan studia l’attacco di Hamas contro Israele

Il ministero della Difesa di Taiwan ha creato un gruppo di studio sull’attacco di Hamas. Per Taipei, la crisi in Israele è un interesse diretto, sia sul piano militare che politico. Ecco i motivi

Il ministero della Difesa di Taiwan ha preso una decisione significativa, simbolica sia dal valore politico/strategico che sul piano tattico/militare. Nell’ambito dell’implementazione del livello di preparazione tecnico-operativa della difesa dell’isola, il governo di Taipei ha annunciato di aver creato un gruppo di lavoro dedicato allo studio dell’attacco del movimento jihadista palestinese Hamas contro Israele. La decisione è stata annunciata dal ministro della Difesa di Taiwan, Qiu Guozheng, che ha sottolineato l’importanza di acquisire esperienza sulle capacità di risposta in situazioni simili.

Non è sorprendente che Taiwan voglia studiare quanto accaduto; e non c’è nemmeno da stupirsi troppo se intendano renderlo pubblico. L’infowar è parte del dossier taiwanese, e certi messaggi hanno valore politico. Proviamo a spiegarci.

L’attacco di Hamas a Israele è avvenuto in condizioni e presupposti ancora non chiari, ma quel che è certo è: la rapidità, l’efficacia, la sorpresa. Prepararsi a tutti i possibili scenari è il minimo da fare per una nazione insulare come Taiwan che vive col giogo esistenziale di un’operazione militare cinese — perché come noto il partito comunista di Pechino la considera da sempre parte della Repubblica popolare e vorrebbe annetterla.

Secondo il ministro taiwanese, la disponibilità di dati di intelligence è fondamentale per prepararsi in anticipo e, se possibile, organizzare la difesa in modo mirato. Qui c’è un messaggio chiaro: Taipei chiede agli alleati — dotati di sistemi per la raccolta di informazioni sofisticati — di aumentare al massimo la condivisione delle stesse. Essenzialmente, chiede agli Stati Uniti totale fiducia sul ricevere dati e imbeccate sulle attività cinesi. Se è vero che alla base dell’infiltrazione di Hamas che ha prodotto oltre mille morti israeliani c’è stata una falla (complessa) di intelligence, allora Taipei vuole evitare che questo accada per sé.

Il tema delle vittime civili è un punto ulteriore. Taiwan sa che l’attacco cinese sarebbe ben più strutturato di quello dei terroristi palestinesi, chiaramente dotati di mezzi limitati e preparazione minore rispetto all’Esercito popolare di liberazione. L’assalto cinese — di cui Pechino, nonostante rimarchi la soluzione diplomatica della questione taiwanese, non nega l’opzione — sarebbe ben più strutturato, ma avrebbe in comune lo shock potenziale delle vittime civili. In sostanza, i pianificatori di Taiwan vogliono capire come Israele ha gestito l’effetto anche psico-sociale di quanto accaduto. Ossia, vogliono comprendere come poter capitalizzare da esso, evitando una reazione di resa da parte della collettività, ma suscitando un sentimento di unità grintosa nella risposta.

Tatticamente, Israele si è trovato a respingere un’operazione asimmetrica, dove l’assalto dal cielo è stato composito, formato sia da missili (e forse droni) che dai paraglider che portavano i miliziani specializzati della Brigata Ezzedin al Qassem. Insieme le forze di pattugliamento marittimo hanno dovuto ingaggiare scontri con le unità anfibie, che si muovevano con barchini rapidi e difficilmente intercettebili. Contemporaneamente — questa è la dimensione realmente asimmetrica — evolveva tramite i social network il warfare informativo. Le immagini dei ragazzi che scappavano dal Nova Festival, quelle dei coloni in fuga, quelle dei rapiti e le foto di esecuzioni avevano l’obiettivo di scioccare la cittadinanza israeliana.

Lasciare la collettività intontita, tra paura e caos, col naso gocciolante (bloody nose è il termine tecnico di una attacco traumatizzante). E qui, mescolato al piano psicologico del blitzkrieg palestinese, si apre quello di carattere più politico e dunque strategico. Taiwan ha la necessità esistenziale di non restare isolata. Per paradosso della sorte rispetto alla sua connotazione geomorfologica, dunque geostrategica, l’Isola deve avere collegamenti esterni. E li cerca in primis tra i Paesi like-minded, la comunità democratica che condivide con Taipei destini e interessi.

Non è un caso se il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, pianifica una visita in Israele o se nei briefing confidenziali che i funzionari americani forniscono con l’obiettivo di indirizzare la narrazione si rimarca con insistenza il valore dell’unità occidentale. I dossier sono certamente distinti, sia sul piano militare che politico, ma c’è un filo di collegamento.

Davanti alle ambiguità russe e cinesi — e nei rapporti con Hamas e nelle posizioni prese dopo gli attacchi — Stati Uniti, Unione Europea, Giappone, Corea del Sud hanno marcato la posizione in protezione ideologica di Israele. Taiwan deve essere parte del fronte, e per entrare nel flusso sceglie la strada più dritta: l’analisi sulle dinamiche securitarie dell’attacco, perché è la dimensione che percepisce più direttamente sui propri interessi. La migliore leva, unita agli interessi che Taipei ha per le evoluzioni dell’area Medio Oriente e Nord Africa, collegati all’obiettivo di aumentare la propria presenza nella regione.

La guerra russa in Ucraina ha definitivamente segnato la fine della Pax Americana, sconvolgendo la sicurezza globale. L’attacco di Hamas si inserisce in un contesto storico globale in cui Tawain si sente a rischio.


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