Dopo mesi di fuga in massa degli investitori, Pechino decide di aprire il comparto più strategico della sua economia, insieme al mattone, quello dei servizi. Mentre dalle Borse arriva lo stop alla vendita di azioni a soggetti poco graditi dal partito
Da una parte si apre, dall’altra si chiude. L’unico filo conduttore è, però, la paura. Quella di perdere anche gli ultimi residui di fiducia verso la propria economia. E così in Cina va in scena l’ennesima operazione a dir poco ambigua, nella speranza di tamponare un’emorragia di capitali che sta lentamente indebolendo le principali piazze finanziarie del Dragone. Sono mesi, ormai, che la Repubblica Popolare assiste attonita alla fuga di investitori, risparmiatori, capitalisti di piccola, media e grande taglia. Un esodo che la seconda economica globale non può permettersi, specialmente se si vuole rimanere al passo con l’India e, soprattutto, gli Stati Uniti.
E allora, ecco la soluzione. Aprire al mercato stranieri il più grande settore industriale della Cina, quello dei servizi. Che, insieme al mattone, che vale un terzo del Pil cinese, rappresenta la seconda gamba dell’intera economia nazionale. Dal momento che all’estero sembrano aver poca voglia di investire in Cina, ecco che creare dei varchi in un comparto così strategico può essere una mossa azzeccata per richiamare in patria i capitali fuggiaschi.
Peccato che agli investitori all’estero possa arrivare un messaggio poco rassicurante. Come è possibile puntare su una Borsa che esclude la vendita delle azioni a operatori stranieri? Chissà se è davvero una casualità la classifica di Nikkei, appena aggiornata, sulla base del materiale pubblicato dalla Commissione centrale per l’ispezione disciplinare del Partito comunista cinese, il potente braccio armato della politica anti-corruzione e nella quale si segnalano 67 funzionari finanziari sotto indagine quest’anno, rispetto ai 58 in tutto il 2022. Un numero più che quadruplicato rispetto al totale del 2020.