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Così la Cina minaccia le nostre università. Parlano Tiffert e Gamache

In Occidente cresce la consapevolezza dei rischi legati ai rapporti accademici con la Cina. Spetta prima di tutto alle università trovare risposte. A spiegarlo sono Glenn Tiffert, distinguished research fellow e direttore del programma “China’s Global Sharp Power” presso la Hoover Institution dell’Università di Stanford, e Kevin Gamache, chief research security officer del Texas A&M University System

Spetta prima di tutto alle università fronteggiare le sfide poste dalle collaborazioni con atenei a rischio, come i “Sette figli della difesa nazionale”, ossia gli altrettanti istituti pubblici cinesi finanziati dal ministero dell’Industria e della Tecnologia informatica per contribuire allo sviluppo delle forze armate. Ma anche come gli Istituti Confucio, strumenti di soft power cinese. A spiegarlo sono Glenn Tiffert, Distinguished Research Fellow e direttore del programma “China’s Global Sharp Power” presso la Hoover Institution dell’Università di Stanford, e Kevin Gamache, Chief Research Security Officer del Texas A&M University System, responsabile della sicurezza della ricerca di 11 università e 7 agenzie statali di A&M System.

Formiche.net ha incontrato i due esperti americani che in questa settimana hanno incontrato il mondo accademico e quello politico, in particolare una delegazione guidata da Federico Mollicone, deputato di Fratelli d’Italia e presidente della commissione Cultura della Camera.

“Nei rapporti commerciali e di ricerca con la Cina, c’è una crescente consapevolezza che l’apertura asimmetrica comporta dei rischi”, dice Tiffert. “Tuttavia, la sfida consiste nel gestire concretamente questi rischi e sono in corso sforzi per affrontare questa complessa questione, riconoscendo che non ci sono risposte semplici a questa sfida”, aggiunge. “Facendo un’analogia, per certi aspetti” questa sfida “è un po’ come il cambiamento climatico”, aggiunge Tiffert. C’è la consapevolezza che l’attività umana causa il cambiamento climatico e comporta dei rischi. Tuttavia, la sfida risiede in parte nel coordinamento: come possiamo modificare il comportamento individuale per ottenere i risultati desiderati? Mentre le politiche possono essere adattate, il vero cambiamento dipende da varie istituzioni della società e dai singoli individui che modificano il loro comportamento per allinearsi ai nostri obiettivi. In una società democratica, questo si rivela una sfida, vista la grande enfasi attribuita alle libertà”, a differenza di quanto accade sotto regimi come quello del Partito comunista cinese.

A tal proposito, il Texas A&M University System è stato il primo negli Stati Uniti a istituire un ufficio per la sicurezza della ricerca nel 2016, sottolinea Gamache. “All’epoca, la combinazione di ricerca e sicurezza non era comune. Inizialmente, i ricercatori erano scettici riguardo alle questioni da noi sollevate, ma negli ultimi sette anni sono stati compiuti notevoli progressi per aumentare la consapevolezza”, continua. C’è, però, ancora del lavoro da fare per far comprendere ai ricercatori i rischi. “La soluzione consiste nell’avere le informazioni e i dati giusti per prendere decisioni informate, ma i ricercatori devono sapere che esiste un problema”, osserva.

La Cina è, inevitabilmente, la prima sfida. Sul fronte militare “sta investendo moltissimo in tecnologie come i semiconduttori avanzati, l’ipersonica, il supercalcolo e gli esoreattori”, osserva Tiffert. “L’attenzione agli investimenti e alla mobilitazione di talenti, compreso il trasferimento non autorizzato di conoscenze dal mondo accademico e industriale, solleva preoccupazioni per la sicurezza nazionale”. C’è poi la competitività economica, in particolare nella transizione green-tech. “I passi avanti della Cina nei semiconduttori comportano rischi di un’eccessiva dipendenza da un’unica fonte, con conseguenti vulnerabilità della catena di approvvigionamento. Questi esempi evidenziano la necessità di valutare le sfide in base a specifiche aree di interesse”, aggiunge.

La cooperazione tra alleati e partner like-minded è fondamentale, concordano i due esperti. “Quest’anno ho viaggiato in diversi Paesi, per lo più in Europa, e molti di loro hanno acquisito una maggiore consapevolezza della crescente complessità del mondo rispetto a dieci anni fa”, dice Tiffert. “C’è un riconoscimento condiviso del fatto che le vecchie pratiche commerciali devono cambiare”, aggiunge. “Ogni Paese si trova in una situazione diversa, con un diverso livello di integrazione e di esposizione a Paesi come Cina, Russia e Iran. Il nostro approccio prevede di imparare dalle esperienze dei Paesi che visitiamo, di incontrarli nel loro percorso e di condividere le nostre idee per andare avanti in modo collaborativo”, prosegue.

“C’è ampio spazio per la cooperazione transatlantica”, dice Gamache. Dal 2017 la Texas A&M University ha avviato il programma Academic Security & Counter Exploitation per far discutere università e governo sulle migliori pratiche. “Ogni anno organizziamo un seminario di formazione nazionale che attira circa 200 università e agenzie federali”, spiega Gamache sottolineando che l’anno scorso hanno partecipato anche rappresentanti di altri 13 Paesi. L’ottava conferenza negli Stati Uniti è prevista per il marzo prossimo. “L’obiettivo è migliorare la cooperazione tra le università statunitensi e promuovere la collaborazione internazionale” perché, aggiunge, “non si tratta di un problema esclusivamente statunitense” e “le università devono svolgere un ruolo primario”.

La prossima settimana Anna Maria Bernini sarà in missione a Pechino per la Settimana Cina-Italia della Scienza, della tecnologia e dell’innovazione. Il Foglio ha rivelato che nel corso della visita verrà firmato un protocollo esecutivo tra i due governi, con un investimento italiano, per i prossimi due anni, pari a 1,4 milioni di euro. Si tratta di un’iniziativa negoziata dalla Farnesina che rientra nel rinnovato partenariato strategico, ovvero la piattaforma di collaborazione e diplomazia che dovrebbe compensare il mancato rinnovo (altamente probabile ma non ancora annunciato, e manca meno di un mese alla rinnovo automatico) del memorandum d’intesa sulla Via della Seta. La missione seguirà un approccio di “cooperazione e consapevolezza”, ha spiegato Il Foglio citando fonti ministeriali. Lo stesso giornale ha spiegato che di ciò Bernini ha discusso anche il mese scorso nell’incontro con l’ambasciatore statunitense Jack Markell.

Tuttavia, fa osservare la stessa testata, “di un sistema di de-risking con la Cina, nelle università e nella ricerca, ancora non se ne parla – anche per motivi strutturali: il principio costituzionale di autonomia degli atenei è un punto fermo quando si tratta di, per esempio, considerare a rischio gli istituti Confucio dentro ai dipartimenti”. In Italia ci sono 16 Istituti Confucio ma “manca un dibattito sulla loro presenza o sui rischi che potrebbero comportare”, ha evidenziato il centro studi tedesco Merics. In Italia non ci sono “nemmeno” linee guida “per le università su come gestire le partnership con le università cinesi”, hanno aggiunto.

E in questo contesto proliferano le collaborazioni, anche quelle a rischio. Secondo un altro recente rapporto del Merics, tra il 2013 e il 2022 le co-pubblicazioni tra la Cina e l’Italia sono aumentate del 258 per cento. Inoltre, secondo la società di consulenza Datenna, il nostro Paese è tra quelli con il maggior numero di collaborazioni con i “Sette figli della difesa nazionale”. Tra le università con collaborazioni in Italia e considerate dall’International Cyber policy Center dell’Aspi “ad alto rischio” c’è la Southeast University di Nanchino, il cui capo del Partito comunista cinese, Zuo Wei era in Italia per rilanciare la sua presenza nelle università scientifiche del nostro Paese, come scritto dal Foglio. In Italia anche Xichun Zhang, capo della South China University of Technology (considerata a rischio “medio”).

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