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Croci e delizie del debito pubblico italiano. L’analisi di Polillo

Non fare altro debito, ma garantire una sua rotta discendente è necessario per contenere quelle rendite che sono legate al pagamento degli interessi. Il problema ancora irrisolto riguarda la strategia più efficace per ottenere un simile risultato. La “variabile indipendente”, come si diceva negli anni ‘70, non è il salario, ma il ritmo di crescita complessivo del sistema economico. Al quale ciascuno di noi dovrebbe tentare di contribuire. L’analisi di Gianfranco Polillo

“Sul debito” ha detto Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia, “è suonata la sveglia”. Difficile non essere d’accordo. Ma solo a condizione d’intenderci. Per non cadere ancora una volta in una vecchia trappola. Quella secondo la quale il debito è schuld (al tempo stesso colpa e debito), secondo la tradizione tedesca.

Mario Draghi, in un suo intervento al meeting di Rimini, aveva cercato di rendere meno rigida e più problematica questa impostazione: distinguendo tra “debito buono” e “debito cattivo”, ma la reazione degli ortodossi non si era fatta attendere. Peccato: perché i dati, se correttamente interpretati danno loro torto e ragione all’ex presidente della Bce.

Le nostre elaborazioni hanno come base i dati di Banca d’Italia, la cui serie storica parte dal 1980 per arrivare ai nostri giorni. In questo lungo intervallo di tempo (ben 42 anni) il debito italiano è stato pari in media al 109 per cento del Pil. Con punte che hanno raggiunto il 120,1 per cento nel 1994 o il 154,9 per cento nel 2020. Situazione, indubbiamente critica, ma non fino al punto da evocare possibili default o crisi irreversibili. In altre parole l’Italia non è la Grecia. Non può certo dormire sonni tranquilli, considerato il fosco scenario internazionale. Ma non è nemmeno ad un passo dalla bancarotta.

Nello stesso intervallo di tempo, anche il debito degli altri Paesi, appartenenti all’Eurozona, ha mostrato la stessa tendenza. Tra il 1980 ed il 2022, il debito italiano è passato dal 55,9 per cento al 144,4 per cento, con un incremento del 158,3 per cento. Quello dell’Eurozona, escludendo l’Italia, dal 31,2 per cento del 1980 all’83,1: con un incremento del 166,3 per cento: 8 punti in più rispetto al Bel Paese. Facile la spiegazione del fenomeno. L’Italia, nel 1980, era partita con il piede sbagliato. Sempre nel 1980, il suo debito era del 79 per cento superiore a quello dell’Eurozona. Nel 2022 questo rapporto risulta leggermente a favore dell’Italia (dal 79 al 75 per cento). Anche se risultano evidenti i limiti delle politiche seguite dai vari Governi, che hanno fatto ben poco per ridurre il peso di quel “peccato originale”.

Non è la sola novità. Quei dati contribuiscono anche a sfatare il mito che all’origine della crisi attuale fossero state le politiche degli anni ‘80. La “Milano da bere” tanto per intenderci. Agli inizi degli anni ‘70, il debito italiano, secondo l’accurata ricostruzione dell’Osservatorio Cpi del 2021, era pari al 36,8 per cento del Pil, per chiudere la decade al 55,9. Con una crescita del 51,9 per cento. Nella decennio successivo l’incremento sarà del 68,8 per cento.

Indubbiamente più alto, ma non tale da giustificare il presunto passaggio dal paradiso all’inferno. Negli anni ‘70 le principali cause del maggior debito erano riconducibili all’improvviso scossone nella dinamica dei prezzi del petrolio. In quelli successivi, alla politica monetaria, voluta dalla Fed americana, allora guidata da Paul Volcker, per combattere uno dei corni della stagflation. Qualcosa che ci riporta direttamente ai giorni nostri.

Ma se il pericolo di una crisi del debito italiano, non è imminente perché preoccuparsi? La spiegazione è in un solo dato: la spesa per interessi. Nel periodo considerato (1980-2022) essa è stata pari in media al 6,45 per cento del Pil, contro il 2,87 per cento (il 44 per cento, meno della metà) degli altri Paesi dell’Eurozona. Che, di conseguenza, possono vantare un vantaggio competitivo di oltre 3 punti e mezzo di Pil all’anno. Se le politiche italiane si fossero allineate a quelle dell’Eurozona, la legge di bilancio per l’anno in corso, avrebbe potuto avere a disposizioni risorse per un valore pari a 65,6 miliardi, contro una manovra effettiva di 17,7. Ed una differenza di quasi 4 volte tanto. Pari appunto ad una differenza nella spesa per interessi tra il 4,4 per cento del Pil italiano e l’1,2 del resto dell’Eurozona.

Il danno finora subito risulta essere tanto più consistente se si esaminano gli effetti collaterali. In media il debito italiano è distribuito, per il 47,7 per cento a favore delle istituzioni finanziarie (banche, assicurazioni, fondi ecc.), per il 33,3 per cento a vantaggio degli investitori esteri e solo per il restante 19 per cento delle famiglie e le imprese. Il primo effetto di questa concentrazione è un fenomeno di spiazzamento. Le banche e le altre istituzioni finanziarie sono obbligate o preferiscono acquistare titoli di stato, piuttosto che finanziare i privati, specie nei periodi più turbolenti.

Dalle statistiche della Banca d’Italia risulta infatti che, in media, solo il 67,5 per cento dell’attivo delle banche è stato impegnato da queste ultime, sotto forma di prestiti ai residenti. E che questa percentuale tende a ridursi, con il crescere dell’interesse corrisposto dai titoli del debito pubblico. Si parla tanto di lotta alle rendite. Ma la rendita più importante, in Italia, è proprio quella che trae origine dalla dimensione del debito pubblico e dalla necessità di garantire il collocamento dei relativi titoli sul mercato finanziario. Favorisse almeno le famiglie! Ma di quel 6,45 (il totale degli interessi) per cento del Pil, a queste ultime rimane appena l’1,2 per cento. Poco più di a briciola.

Fin qui una storia che comunque aiuta a capire. Ma da quanto detto si può anche avvertire il senso di un pericolo imminente? Nei giorni passati, in attesa del verdetto di Standard & Poor’s, erano stati in molti a predire sfracelli. Puntando il dito sul valore dello spread che aveva superato i 200 punti base. Troppa interessata agitazione. Si confrontino i più recenti rendimenti dei BTP decennali: dal novembre 2013 alla fine dello scorso anno il loro rendimento medio era stato pari all’1,89 per cento. Quello dell’Euribor (il tasso d’interesse praticato sui prestiti interbancari) a meno 0,07 per cento. Con una differenza di quasi 2 punti. A partire, invece, da quella data il rendimento del BTP è aumentato in media al 4,28 per cento, ma quello dell’Euribor al 3,86. Per cui il differenziale, pari ora a 0,42 punti, si è ridotto di quasi l’80 per cento.

Questi confronti ci dicono che, nonostante i profeti di sventura che allignano tra di noi, il mercato non è preoccupato della sorte dei propri investimenti nei titoli di stato italiani. Altrimenti avrebbe preteso rendimenti ben più consistenti. Al contrario valuta correttamente i punti di forza del Paese. E ne trae le dovute conseguenze. Vede, ad esempio, che nonostante la grave crisi internazionale, il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti resta positivo. Segno di un’economia che, pur gravata da forti contraddizioni, è ancora competitiva.

È anche in grado di cogliere un dato poco valutato. Al termine del secondo trimestre di quest’anno la posizione patrimoniale nei confronti dell’estero era attiva, con un credito pari a 105 miliardi di euro. Nei confronti di chi agita lo spettro della Grecia, è bene ricordare che, nel primo trimestre del 2011, la posizione debitoria nei confronti dell’estero di quel Paese era par al 107,5 per cento del Pil. C’è poi da considerare il dato del debito privato. Quello italiano non solo è ben al di sotto delle medie dell’Eurozona; ma inferiore a quello francese, spagnolo ed addirittura tedesco.

Ed infine il peso del risparmio, senza voler minimamente menzionare la ricchezza finanziaria degli italiani: 8,66 volte il reddito lordo personale disponibile (dati 2021, fonte Banca d’Italia). Inferiore solo al Canada ed alla Francia, ma superiore alla Germania, il Regno Unito e gli stessi Stati Uniti. Volendo escludere la componente immobiliare, alla fine del 2022 il risparmio italiano (depositi e titoli) ammontava ad oltre 2.000 miliardi. Un valore pari al 73,5 per cento del debito pubblico complessivo. Una percentuale che dal 2012 è regolarmente cresciuta, passando dal 44 al 77,5 per cento del 2021, per poi decrescere leggermente.

In genere questi punti di forza non sono minimamente considerati nel dibattito sull’argomento. Si preferisce gridare al lupo, per inchiodare il governo di turno. Senza minimamente curarsi degli effetti depressivi che queste grida producono sulle aspettative dei vari soggetti economici: lavoratori, imprenditori, famiglie. Il che non significa ovviamente plaudire al Reddito di cittadinanza o ai bonus per l’edilizia. Non fare altro debito, ma garantire una sua rotta discendente è necessario per contenere quelle rendite che sono legate al pagamento degli interessi. Il problema ancora irrisolto riguarda la strategia più efficace per ottenere un simile risultato. Per quanto ci riguarda, non avremmo dubbi. La “variabile indipendente”, come si diceva negli anni ‘70, non è il salario, ma il ritmo di crescita complessivo del sistema economico nel suo complesso. Al quale ciascuno di noi dovrebbe tentare di contribuire.


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