Anche gli yemeniti Houthi partecipano alle azioni contro Israele guidate dall’Asse della Resistenza creato dall’Iran. Teheran sostiene di non essere in grado di controllare i gruppi, che però per anni ha foraggiato e indottrinato per colpire i nemici (Israele, America, Occidente)
Il sospetto è orribile: un missile lanciato dagli yemeniti Houthi era diretto verso la centrale nucleare israeliana di Dimona. Non ci sono verifiche possibili sul target, solo ipotesi sulla traiettoria (con la consapevolezza che l’esagerazione è parte dell’infowar che avvolge il conflitto). Ma il dato è chiaro: il gruppo che ha conquistato mezzo Yemen negli ultimi otto anni – aiutato dai rifornimenti di componentistica militare iraniana – ha dichiarato adesso l’intenzione di attaccare Israele.
Missili e droni sono stati intercettati per tre volte negli ultimi dieci giorni. Due – non catturati dalla rete di protezione aerea americana installata nel Golfo e coadiuvata dai sistemi anti-missili delle navi che doppiano la regione – sono caduti in Egitto e Giordania. Gli Houthi vogliono la loro parte in questo caos. Serve per mantenere presa sul potere attraverso la narrazione e per far parte delle mosse del network della resistenza.
L’ostilità contro Israele unisce i gruppi connessi all’Iran – gli Houthi o Hezbollah, o le varie milizie minori in Iraq, Siria, Afghanistan, Pakistan. Formano l’Asse della Resistenza, e supportano Hamas e i gruppi palestinesi. È particolare il contesto, perché molti di quei gruppi filo-iraniani sono sciiti, gli Houthi sono prevalentemente di culto zaydita, e Hamas è invece sunnita. In passato, Hamas li ha combattuti: per esempio in Siria, dove i palestinesi sostenevano i ribelli che volevano rovesciare il regime assadista puntellato da Hezbollah (e dall’Iran). Ma più della pratica religiosa prevale l’ideologia anti-sionista, anti-americana e anti-occidentale, e il pragmatismo in questo caso.
Appartenere a quel network guidato dai Pasdaran permette sostentamento e auto-mantenimento. Gli Ansarullah, i Partigiani di Dio che sono l’ala militare degli Houthi, predicano da sempre “Morte all’America! Morte a Israele!” e ricevono da sempre sostegno nella loro ambizione separatista nordista da Teheran. I due piani si connettono perché il governo di Sanaa era legato con l’Arabia Saudita direttamente e indirettamente con l’Occidente (e ora Riad e Gerusalemme provano a parlarsi in modo più formale).
Sono un proxy iraniano, come le altre milizie: permettono alla Repubblica islamica sciita di essere attiva sulla scena di guerra, ma garantiscono la cosiddetta “plausible deniability”, ossia danno a Teheran la possibilità di agire da dietro le quinte sganciandosi da responsabilità formali. Ma gli Houthi hanno anche un’agenda personale dove le priorità sono il destino dello Yemen, per cui hanno trattato un cessate il fuoco con Riad – che dal 2015 ha guidato senza successo una coalizione sunnita che avrebbe dovuto fermare i ribelli (risultato zero, migliaia di morti e una crisi umanitaria tra le più tragiche al mondo, e gli Houthi che ormai comandano mezzo Paese attraverso una giunta militarista).
Gli Houthi sono antisemiti, spesso nei loro messaggi di propaganda raccontano la loro missione in nome dell’Islam e contro gli ebrei. In questo momento in cui da tutti gli angoli del mondo arabo-islamico si sono mossi per istinto certi sentimenti storici (e reconditi a quanto pare), dovevano in qualche modo segnare il territorio anche loro. Ieri il portavoce dell’organizzazione ha rivendicato il lancio di missili contro Israele – un Quds-3, nome programmatico dato che “Quds” significa Gerusalemme – e altre due “operazioni” precedenti, quelle del 19 ottobre e del 28, promettendo nuove azioni.
Da Doha, dove ha incontrato la leadership di Hamas ospitata nella capitale qatarina da anni, il ministro degli Esteri iraniano ha ripetuto che il suo Paese non vuole entrare negli scontri e non vuole l’escalation regionale. Poi ha aggiunto di non avere il controllo su quanto accade tra le componenti dell’Asse della Resistenza. È tendenzialmente vero, anche se non totalmente.
Gli iraniani – in particolare il defunto comandante delle Quds Force, Qassem Soleimani – hanno creato il network di milizie regionale basandosi sul costrutto ideologico della “resistenza”, perché era un tema facile quanto sentito dalle collettività. Le hanno finanziate e armate, hanno lavorato a livello politico e geopolitico per farle diventare sempre più influenti. È il caso di Hezbollah, player centrale nelle dinamiche libanesi e punto di equilibrio per il Medio Oriente. Ma ormai le controllano relativamente, perché come detto i vari gruppi seguono agende e priorità personali. I Pasdaran avrebbero però strumenti per parzialmente indirizzarli, ma perché farlo visto che combattono un nemico comune senza eccessivi sforzi e coinvolgimento per Teheran?
Da giorni l’Iran ripete che il fronte della resistenza non può restare in silenzio davanti a Israele che invade la Striscia e uccide i palestinesi – ossia alla campagna di eliminazione di Hamas che segue il brutale assalto subito dagli israeliani a il 7 ottobre. Ma Teheran sottolinea che per muoversi il fronte non intende aspettare i consigli di nessuno. Ossia, gli ayatollah dicono qualcosa come “non siamo noi a mobilitarli, ma sono loro stessi che agiscono in modo indipendente”. Qui però la Repubblica islamica omette che, anche fosse vero (e non è per niente certo), questa indipendenza è legata a un indottrinamento ideologico e una necessità pragmatica che l’Iran ha trasmesso a quei gruppi nel corso degli anni.
Dal punto di vista geostrategico, il coinvolgimento degli Houthi nel conflitto è deleterio. Le tecnologie acquisite dagli yemeniti sono buone a livello teorico, ma spesso mal funzionanti. Aumenta il rischio che target diversi dal bersaglio designato vengono colpiti. La fascia del Mar Rosso è a rischio, la Penisola del Sinai e tutto il territorio saudita e giordano. Ossia, c’è già un’estensione regionale della minaccia.