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Global south, per contare all’Ue occorre politica, proiezione militare e securitaria. Scrive Stefanini

L’Europa dovrebbe essere consapevole di quello che non è. Quando il gioco internazionale si fa duro le leve economiche e regolamentari passano in secondo piano. Non bastano. Occorrono anche politica, proiezione militare e di sicurezza. L’analisi di Stefano Stefanini, senior advisor dell’Ispi e già rappresentante d’Italia alla Nato, apparsa nell’ultimo numero della rivista Formiche

L’Europa ambisce da sempre a essere attore internazionale di prima grandezza. Non le manca nulla per esserlo, ma non lo è. L’esplosione mediorientale l’ha impietosamente messo a nudo. La voce di Bruxelles si è persa nel triangolo tra solidarietà con Israele, dialogo con il mondo arabo ed emergenza umanitaria a Gaza. L’impossibilità di emergerne con una coerente linea unitaria lascia l’Unione europea ai margini politici, diplomatici e di sicurezza di una crisi scoppiata ai propri confini geografici.

I limiti mostrati non passano inosservati ai Paesi emergenti con i quali l’Ue vuole allacciare un rapporto cooperativo svincolato dalle condizionalità imposte dalla competizione tra grandi potenze. Che continueranno a guardare all’Unione come un gigante economico e un nano politico. All’esordio del suo mandato, la presidente Ursula von der Leyen aveva annunciato una Commissione “geopolitica”. Non prevedeva forse fino a che punto gli eventi l’avrebbero presa in parola.

In quattro anni ha affrontato tre crisi che richiedevano un salto di qualità geopolitico: la pandemia; l’invasione russa dell’Ucraina; l’attacco di Hamas a Israele. L’Ue l’ha fatto sulla prima, con molta efficacia; ha dovuto innovare, ma operava su un terreno familiare, regole e soldi. Continua poi a tenere bene testa alla seconda, dove mantiene un ruolo essenziale – sul taglio della dipendenza energetica da Mosca e sulle sanzioni – pur cedendo agli Stati Uniti la primogenitura politica e alla Nato la garanzia di sicurezza.

Rischia però di scivolare nell’irrilevanza sulla terza. Viene prima il sostegno a Israele aggredito da Hamas o la negletta questione palestinese? Questo lo spartiacque di fondo che ha diviso Bruxelles. La spaccatura interna fra von der Leyen dalla parte del primo e il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, con l’Alto rappresentante – teoricamente ministro degli Esteri Ue – Josep Borrell della seconda, e fra commissari, ha prodotto una cacofonia contraddittoria.

Al punto che Joe Biden ha tenuto incontri separati con von der Leyen e Michel, entrambi in visita-lampo a Washington. C’è da meravigliarsi se, nel bel mezzo di una guerra a serio rischio di escalation regionale, con due “presidenti” che parlano con un linguaggio diverso, l’Ue trovi poco ascolto? L’assenza di una politica estera europea è imputata alla necessità di prendere decisioni all’unanimità. È tuttavia discutibile che il ricorso alla maggioranza qualificata la sdoganerebbe. Il problema non è istituzionale. È di merito.

In situazioni come quelle che stiamo attraversando – in Ucraina, in Medio Oriente, un domani forse nell’Indo- Pacifico – le scelte di politica estera sono esistenziali. Sono una dimensione di sovranità nazionale che gli Stati non possono cedere e, difatti, non lo fanno. Basti pensare a Viktor Orbán che non ha esitato ad andare a Mosca e stringere la mano a Vladimir Putin sul quale pende il mandato di cattura del Tribunale penale internazionale.

E quand’anche le politiche non divergono, differiscono le sensibilità: alla “conferenza di pace” del Cairo, per i Paesi europei del sud, fra cui l’Italia, partecipavano i leader; per gli altri, fra cui Germania, Francia e Regno Unito, i ministri degli Esteri. Le ambizioni non vanno abbandonate. Spingono l’Europa geopolitica a crescere. E potrebbero diventare necessarie in caso di crisi delle relazioni transatlantiche se un rieletto Donald Trump rispolverasse un’America first, questa volta senza indulgenze.

Intanto l’Europa deve rassegnarsi a essere quello che è: una formidabile potenza di economia, democrazia e diritto e una forza di stabilità continentale. Ma non una tradizionale grande potenza. La congiuntura internazionale la spinge adesso a guardare anche fuori area. In nome dell’indipendenza strategica l’Unione europea ha impostato una strategia di proiezione verso i Paesi emergenti per affermarsi come interlocutore autonomo rispetto alle tre grandi potenze – Usa, Cina, Russia – in competizione fra loro.

L’obiettivo, più o meno dichiarato, è di costruirsi una rete di rapporti per affrancarsi dalle dipendenze: energetica dalla Russia, industriale dalla Cina. Su questo terreno Bruxelles si muove bene. Deve però anche essere consapevole di quello che non è. Quando il gioco internazionale si fa duro le leve economiche e regolamentari passano in secondo piano. Non bastano. Occorrono anche politica, proiezione militare e di sicurezza. In Europa la sicurezza è affidata essenzialmente alla Nato e alla garanzia americana. Ucraina docet.

La politica richiede univocità di messaggio e rapidità di esecuzione specie nelle crisi. Nella guerra di Hamas la seconda è mancata, nella prima sono emerse contraddizioni. Che non passano inosservate a quel Sud globale col quale l’Ue vuol costruire un rapporto privilegiato. L’obiettivo rimane valido. Nei limiti delle capacità geopolitiche dell’Europa.

Formiche 196


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