L’analisi strategica del conflitto deve spostarsi dalle potenzialità di azioni offensive per giungere ad una sua soluzione militare a quella della continuazione di una lunga guerra d’attrito, in attesa che fattori esterni (ad esempio, un accordo fra Usa e Cina, oppure un netto ridimensionamento del sostegno occidentale all’Ucraina, da cui dipendono le sue capacità di resistenza), oppure fattori interni (crisi del potere di Putin o di Zelensky) inducano a seri negoziati di pace o alla resa di Kiev. La lettura del generale Jean
Le operazioni offensive sia ucraine che russe sono rimaste bloccate sulle linee fortificate che hanno costruito le forze contrapposte. Il gelo e la neve hanno reso ancora più difficile di quanto già fosse il successo degli attacchi. La guerra è divenuta di logoramento.
Comporta un elevato numero di perdite di soldati e di materiale. Nessuno spera più in una soluzione militare del conflitto. Putin non può accettare compromessi. Gli errori commessi dalla sua intelligence – che aveva sottovalutato la volontà e le capacità di resistenza dell’Ucraina – sono simili a quelli commessi da Bush jr. per l’Iraq nel 2003 e da Netanyahu per Hamas.
Il suo potere sarebbe in gioco. Teme un accordo fra militari e oligarchi, sempre più persuasi che gli obiettivi che aveva definito in Ucraina non possono essere raggiunti se non con una guerra di lunga durata, per la quale dispone delle risorse necessarie mobilitando massicciamente popolazione ed economia russe.
Putin spera sempre che Kiev si arrenda, perché l’opinione pubblica ucraina accetti la sconfitta. A parer mio lo farà solo se diminuirà sostanzialmente il sostegno militare ed economico che finora ha ricevuto – anche se “a spizzichi” – dall’Occidente, che sta dando segni di stanchezza sia per il fallimento della controffensiva ucraina sia per lo scoppio della crisi in Medio Oriente.
Forse, Putin aspetta la vittoria di Trump, raschiando il fondo del barile delle risorse russe. Spera nel suo disimpegno dall’Ucraina. Sa che l’Ue si disgregherà senza la leadership Usa e che comunque non ha i mezzi per sostituirla. Manca più di un anno alle elezioni presidenziali. Parallelamente, Putin punta sulla crisi della fiducia degli ucraini in Zelensky.
Per questo, Mosca bombarda le città, costringe gli abitanti a stare al freddo nei rifugi e blocca i porti. Due giorni fa ha lanciato su Kiev 75 drones kamikaze Shahed 131 e, anche quelli 136, molto più pesanti. La contraerea ucraina ne ha abbattuto la quasi totalità. Il numero delle vittime civili è stato inferiore a quello prodotto dalla potente forza di bombardamento anglo-americana nella seconda guerra mondiale o da quella israeliana a Gaza. Lo è stato non per scelta strategica, ma per l’indisponibilità russa di una elevata capacità di bombardamento.
È però probabile che venga interrotto nuovamente il sistema elettrico. La popolazione civile ucraina ha comunque già subito 22.000 morti e quasi 50.000 feriti, a parer mio vergognosamente ignorate dalle manifestazioni europee.
L’analisi strategica del conflitto deve spostarsi dalle potenzialità di azioni offensive per giungere ad una sua soluzione militare a quella della continuazione di una lunga guerra d’attrito, in attesa che fattori esterni (ad esempio, un accordo fra Usa e Cina, oppure un netto ridimensionamento del sostegno occidentale all’Ucraina, da cui dipendono le sue capacità di resistenza), oppure fattori interni (crisi del potere di Putin o di Zelensky) inducano a seri negoziati di pace o alla resa di Kiev.
Dal mio punto di vista, la situazione di Zelensky denuncia maggiori difficoltà e vulnerabilità. Il fallimento della controffensiva è stato un duro colpo al suo prestigio, al morale delle sue truppe e della popolazione e – soprattutto nella prospettiva di un conflitto di lunga durata – alla continuazione di un pieno sostegno occidentale. A parte le “bizze” del Congresso Usa, in esso si avvertono segni di stanchezza.
Anche la situazione interna in Ucraina non sembra più quella di prima. Molti sembrano rassegnati alla perdita di territori. Ne sono prove l’aumento dei renitenti alla leva e la continua sostituzione di responsabili militari e civili. Ma soprattutto la continuazione della strategia offensiva adottata dal presidente desta dubbi anche nei capi militari sia per il fatto che richiederebbe la mobilitazione massiccia di nuove forze, non più possibile, sia l’aumento del sostegno militare esterno sempre meno sicuro, sia elevate perdite che l’Ucraina non può più permettersi anche in vista della ricostruzione del paese.
Molti stanno pensando che l’Ucraina debba ridimensionare i suoi obiettivi di riconquista dei territori perduti e ridurre le perdite passando da una strategia offensiva a una difensiva e a un conflitto di lunga durata sostenibile con la potenza disponibile. Pensano, altresì, che debba concentrare gli sforzi sulla costruzione dell’industria bellica, di cui dispone del livello tecnologico necessario.
Anche il Cremlino deve affrontare grosse difficoltà. Finora, grazie anche a quel genio finanziario che è El’vira Nabiullina, governatore della Banca Centrale russa, e agli introiti del gas e del petrolio, l’economia russa ha retto il peso delle sanzioni, la fuga all’estero di più di mezzo milione di uomini, il ritiro di imprese e di investimenti stranieri, gli embarghi tecnologici occidentali, ecc..
Putin è riuscito a salvaguardare il tenore di vita delle grandi città russe dalle conseguenze del conflitto. Le consistenti perdite di personale hanno colpito soprattutto le sottomesse regioni periferiche della Federazione. Ma certamente fra la massa degli oligarchi e molti siloviki, soprattutto tra i vertici militari, sono cresciuti i dubbi circa l’opportunità di perseguire gli obiettivi iniziali definiti da Putin: “de-nazificazione e “smilitarizzazione” dell’Ucraina, in pratica mutamento di regime a Kiev.
Putin, nel suo recente intervento al G-20, ha definito la guerra una tragedia da far cessare. Ha ripetuto di essere aperto a trattative, fatto applaudito solo dai suoi “fans”, precisando che una convivenza con l’attuale regime di Kiev è improponibile. In pratica non ha aggiunto nulla di nuovo alle sue tesi di sempre, cioè che la Russia non si ritirerà dalle regioni conquistate e che il regime in Ucraina trova le sue radici in un colpo di stato, come secondo lui sarebbe stato la rivolta di Maidan, pilotato dall’Occidente.
Anche le personalità più disponibili a trovare una soluzione al conflitto – come Richard Haass e Charles Kupchan, che ne hanno proposto una fine su Foreign Affairs – ne subordinano l’attuazione ad una serie di garanzie per la neutralità ucraina, che non possono prescindere dall’impegno americano ed europeo, in pratica dall’estensione dell’ombrello Nato ad un’Ucraina ridotta all’80% del suo territorio.
Questo sarà, a parer mio, inaccettabile a Mosca, per la quale il vero conflitto non è fra Russia e Ucraina ma fra Russia e un’Occidente che vuole distruggerla per impossessarsi delle sue ricchezze naturali.
Di conseguenza, il conflitto durerà in attesa di “tempi migliori”, forse di un maggior coinvolgimento della Cina con gli Usa. Credo che l’Occidente continuerà la sua cauta politica di sostegno alla resistenza ucraina, premendo perché da una strategia offensiva passi a una difensiva più sostenibile. Lo farà anche in caso di elezione di Trump. Se non lui almeno i suoi collaboratori sanno che l’abbandono dell’Ucraina segnerebbe la fine del sistema di alleanze che garantisce la supremazia mondiale degli Usa e che l’abbandono di Kiev aumenterà la probabilità di un tentativo d’invasione di Taiwan da parte della Cina.