Pechino si muove con ambiguità (classica) sulla questione israelo-palestinese e anche sul conflitto contro Hamas. I cinesi intendono mandare il messaggio di potenza responsabile che lavora per la stabilità e la pace, mentre gli Stati Uniti sono sbilanciati su Israele
Quando Zhai Jun ha iniziato a studiare arabo, il presidente francese Emmanuel Macron non era ancora nato. Arabista raffinato, conoscitore della lingua e di quel mondo, Zhai era nei giorni scorsi tra gli invitati del presidente francese alla conferenza parigina in cui si parlato anche di crisi mediorientale, perché attualmente ricopre il ruolo di inviato speciale cinese per il Medio Oriente. Formatosi come diplomatico alla prestigiosa Università per gli Studi esteri di Pechino, fu poi inviato al Cairo dagli organismi del Partito per studiare l’arabo. Diventato traduttore per il ministero degli Esteri, andò poi all’ambasciata in Yemen, Arabia Saudita (primo segretario), Libia (l’ambasciatore cinese più giovane in quel momento, aveva 43 anni in un Paese gerontocratico). Poi la carriera nei gangli del ministero, tra gli uffici specifici di Asia Occidentale e Nord Africa, promosso ad ambasciatore francese e infine rientrato a Pechino per rappresentare la strategia cinese in Medio Oriente.
Zhai è una figura chiave dal 2019 (anno in cui la presenza cinese nella regione è diventerà più che visibile). La retorica usuale espressa durante la conferenza di Parigi – profondamente rattristato dal gran numero di vittime civili e dal forte deterioramento della situazione umanitaria, opposizione e condanna per gli attacchi ai civili e per le violazioni al diritto internazionale – indica la linea di Pechino sulla crisi. Distacco e coinvolgimento controllato, posizione complessa da portare avanti. La Cina, per bocca di Zhai, sostiene tutti gli sforzi volti alla riduzione della tensione e al ripristino della pace, accoglie con favore qualsiasi iniziativa che protegga i civili e allevi la crisi umanitaria, ha sempre sostenuto la giusta causa del popolo palestinese volta a ripristinare i propri legittimi diritti nazionali, appoggia tutti gli sforzi volti alla riduzione della tensione e al ripristino della pace. Passi pratici per rendere operative queste parole: pochi. Valore della narrazione nei confronti di una parte di mondo che critica gli sbilanciamenti occidentali (soprattutto americani) su Israele: discreto.
Zhai ha recentemente visitato Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Kuwait. È stato al Cairo per parlare con il segretario generale della Lega Araba e partecipare a un’altra conferenza (insieme a Paesi regionali ed europei, con gli americani presenti solo al minimo), ha ospitato nel suo ufficio tutti i più importanti diplomatici del mondo arabo di sede a Pechino, dove ha anche incontrato (il 7 novembre, un mese esatto dopo il massacro di Hamas) l’ambasciatore americano Nick Burns e Mattias Lentz, che rappresenta l’Ue. Ha fatto “discoursing”, dice una fonte attiva nelle analisi delle questioni internazionali. Ossia ha tenuto interlocuzioni formali ed estese sull’argomento, ma niente di più.
Appena esplosa la crisi, Formiche.net aveva parlato con Enrico Fardella (L’Orientale/ChinaMed) per fare un punto su cosa avrebbe fatto la Cina e che posizione avrebbe assunto. Erano i giorni in cui i leader politico democratico Chuck Schumer era a Pechino e aveva chiesto responsabilità alla potenza concorrente. A distanza di un mese, l’approccio della Cina al conflitto tra Israele e Hamas rimane sfumato, invariato, simbolicamente impegnato, scarsamente attivo, opportunisticamente pronto.
Mentre gli alti funzionari del Partito Comunista Cinese (Ccp), tra cui il segretario Xi Jinping e il capo della diplomazia Wang Yi, hanno ufficialmente chiesto un cessate il fuoco e appoggiato la soluzione a due Stati come formula altisonante (quanto per ora priva di contenuti pratici), la Cina si è astenuta dal prendere esplicitamente posizione, a differenza di alcuni Paesi occidentali che sostengono apertamente Israele.
Questa posizione cauta è attribuita alla storica “neutralità filo-palestinese” di cui parlava Fardella, che affonda le sue radici nell’epoca di Mao Zedong e che ha plasmato la politica estera cinese sul dossier. Ma nonostante la neutralità pubblica, dietro le quinte la Cina si è schierata maggiormente a favore della causa palestinese, complicando il suo delicato gioco di equilibri in Medio Oriente nei confronti di Israele – con cui Pechino intende mantenere una condizione di stabilità perché nutre interessi commerciali e strategici nel Paese. Questa mossa, influenzata dai suoi obiettivi geopolitici e dalla crescente influenza nella regione nell’ultimo decennio, ha anche implicazioni più ampie per la competizione strategica tra Stati Uniti e Cina.
Xi ha impiegato due settimane per rilasciare una dichiarazione ufficiale, evitando di condannare Hamas. Wang, invece, ha fatto in modo che il ministero assumesse una posizione più ferma contro Israele in una telefonata con il suo omologo saudita. Una conversazione strutturata in modo da seguire gli interessi di Riad – con cui Pechino ha un rapporto in approfondimento. Il commercio bilaterale con Israele ha superato i 24 miliardi di dollari nel 2022, ma i legami economici con l’Arabia Saudita superano i 106 miliardi di dollari. Le importazioni di petrolio dall’Arabia Saudita contribuiscono alla sicurezza energetica della Cina, mentre i legami con l’Iran prevedono estensioni di credito in cambio di petrolio.
La Cina ha invece utilizzato le Nazioni Unite per chiedere un cessate il fuoco. Sia la Cina che la Russia hanno posto il veto a una risoluzione proposta dagli Stati Uniti, con l’ambasciatore Zhang Jun che ha dichiarato che la bozza non rifletteva “gli appelli più forti del mondo per un cessate il fuoco”. Ciò è in linea con la storica posizione neutrale, ma tendente al non neutrale. Pechino, con Mosca, ha criticato gli Stati Uniti sia apertamente e soprattutto spingendo in campagne di disinformazione narrazioni anti-occidentali, cogliendo l’opportunità di un sentimento crescente all’interno del mondo arabo.
Nel Paese, i sentimenti anti-israeliani e antisemiti sono proliferati sulle piattaforme dei social media cinesi, portando l’account Weibo dell’ambasciata israeliana a Pechino a chiudere la sezione dei commenti. I media sostenuti dallo Stato hanno incolpato gli Stati Uniti per il conflitto, promuovendo i topos anti-Israele. Gli account ufficiali su X hanno condiviso anche immagini generate dall’intelligenza artificiale provenienti da Gaza, rispecchiando uno schema di infowar contro gli Stati Uniti, pensato anche per disarticolare un fronte Usa-Ue che in realtà sulla crisi mediorientale si è solidificato con maggiore difficoltà rispetto che sull’Ucraina.
Sebbene criticata da Israele e dall’Occidente, la Cina nei confronti del resto del mondo cerca – come sull’Ucraina – di posizionarsi come un attore globale responsabile che sostiene la pace in mezzo alla crisi umanitaria di Gaza. Allo stesso tempo, il conflitto in Medio Oriente offre alla Cina la possibilità di vedere impegnati gli Stati Uniti in un dossier primario, che ruota sia attorno alla difesa di Israele (pensando alla componente ebraica interna agli Usa), sia nel gioco di equilibrio con gli altri attori regionali. Tra questi l’Iran, che soffia sul conflitto a distanza e che ha rafforzato negli ultimi anni i legami con Pechino. Per Pechino, aumentare il coinvolgimento americano nella crisi può essere anche un modo per distogliere parti delle concentrazioni statunitensi dall’Indo Pacifico. Ma l’America intende dare testimonianza di essere la potenza egemone e di non cedere negli impegni strategici multi-dimensionali e multi-regionali.