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Israele, tregua umanitaria per arrivare al cessate il fuoco ed evitare escalation. Parla Sereni (Pd)

L’esponente Pd, già viceministra degli Esteri, delinea il percorso da seguire per far rientrare la crisi a Gaza, e per costruire poi un futuro stabile nella regione. Processo in cui l’Italia ha un ruolo ben preciso. “L’atteggiamento avuto dal ministro degli Esteri Tajani è stato molto equilibrato e di buon senso, nel solco della tradizione della politica estera italiana”

A più di un mese dall’attacco terroristico messo in atto da Hamas, le ostilità continuano a infuriare nella striscia di Gaza, mentre proseguono gli sforzi internazionali per cercare di dare soccorso alla popolazione civile colpita dai combattimenti. Qual’è il ruolo che ha l’Italia all’interno di queste dinamiche? E verso dove dovrebbe indirizzare le proprie risorse? Formiche.net lo ha chiesto a Marina Sereni, esponente del Partito democratico, già viceministra degli Affari esteri e della cooperazione internazionale nei governi Conte II e Draghi, da anni all’interno delle relazioni internazionali dei partiti della sinistra italiana.

L’Italia potrebbe avere un ruolo all’interno della crisi in corso in Medio Oriente?

Penso che l’Italia debba svolgere il suo ruolo, in particolare in ambito europeo. Noi siamo un Paese immerso nel Mediterraneo, area che la tensione in Medio Oriente investe in maniera particolare. E siamo un Paese tradizionalmente amico di Israele e del popolo israeliano, così come siamo un Paese tradizionalmente amico della Palestina e del popolo palestinese. Non è compito mio ricordare quante sono state le iniziative di cooperazione e di solidarietà che in tutta Italia si sono svolte nel tempo, e non solo in quest’ultima fase, sia nei confronti del popolo palestinese che nei confronti di realtà israeliane che hanno lavorato per la pace e per il progetto “Due popoli, due Stati”. Noi siamo dunque un Paese che ha le carte in regola per poter dire la sua in questo momento.

E per scongiurare il rischio di un’escalation?

L’escalation in quell’area sarebbe devastante. Immaginiamo gli scenari di un allargamento della crisi al Libano, o al coinvolgimento del regime iraniano. Dobbiamo fare tutto il possibile, politicamente e diplomaticamente, per trasmettere agli altri attori globali il messaggio di quanto sia prioritario scongiurare l’allargamento del conflitto.

Come valuta la posizione del governo italiano in questo senso?

Penso che l’atteggiamento avuto dal ministro degli Esteri Antonio Tajani sia stato molto equilibrato e di buon senso, nel solco della tradizione della politica estera italiana. Anche se, come sa, noi abbiamo criticato la decisione italiana di astenersi in sede Onu perché riteniamo una presa di posizione, seppur imperfetta, fosse necessaria a chiedere una tregua umanitaria.

Quindi come si può declinare l’azione del nostro Paese?

Oggi c’è bisogno di fare qualcosa in più, e credo che questo “qualcosa in più” sia il sostenere l’iniziativa dell’Alto rappresentante europeo Josep Borrell, che in queste settimane si sta muovendo sia nei confronti dei partner israeliani che nei confronti del mondo arabo. Gli obiettivi sono evidenti: scongiurare l’escalation, che non è ovviamente ancora scongiurata, e fermare il prima possibile le armi. Arrivando a una tregua umanitaria propedeutica al cessate e fuoco vero e proprio. L’azione dell’esercito israeliano nell’ospedale Al-Shifa di Gaza, in corso mentre parliamo, dimostra che siamo ad un punto davvero drammatico del conflitto, nel quale la ricerca dei terroristi di Hamas da parte di Israele sta coinvolgendo e mettendo a rischio la vita di migliaia di civili palestinesi. E questo è un problema enorme, anche per il dopo, perché così si alimenta l’odio. Quindi io credo che ci sia margine d’azione per l’Italia e per l’Europa. La presidenza spagnola dell’Ue ha proposto di organizzare una conferenza di pace, riallacciandosi alla conferenza di Madrid che ebbe un ruolo cruciale nell’aprire la strada agli accordi di Oslo. Io penso che oggi l’Europa debba fare il possibile per essere vicina ai civili di entrambi i popoli, per fermare la strage e per liberare gli ostaggi che sono ancora nelle mani di Hamas. Ma poi dobbiamo preoccuparci del dopo, e nel dopo il ruolo dell’Europa è fondamentale. E l’Italia può dare un contributo in questo quadro.

A Dicembre l’Italia assumerà anche la presidenza di turno del G7. In questo frangente, quale dovrebbe essere invece l’azione di Roma?

Negli anni il G7 ha avuto un ruolo di importanza costante. Continuando a rapportarsi con un altro consesso, quello del G20, che invece dall’invasione russa dell’Ucraina sta attraversando un momento di difficoltà. Di fronte al conflitto tra Hamas e Israele, penso che non sia interesse dei grandi Paesi occidentali adottare una nostra linea di “diversità” dal resto del mondo. Questa chiave di lettura fa comodo alle dittature e a chi vuole indebolire l’Occidente. Noi dobbiamo continuare a dialogare con tutto il resto del mondo. Avendo chiari quali siano i nostri principi e i nostri valori, così da difenderli. E il G7 è in qualche misura il club dei paesi che condividono questi valori. Ma questo non deve farci venire la presunzione dell’autosufficienza. Le maggiori potenze economiche del Mondo (che si riuniscono nel G7), non possono essere autosufficienti in relazione alle sfide di migrazione, clima, terrorismo. La presidenza italiana del G7 dovrebbe puntare ad allargare i vertici ad alcuni grandi protagonisti del sud del mondo, come Africa o l’Asia. Non possiamo chiudere il G7 in un recinto, perché questo limita la nostra capacità d’azione e perché questo non fa che confermare una narrazione che è quella delle dittature e delle autocrazie che vogliono indebolire l’occidente.

In quale direzione è necessario lavorare per dare una soluzione duratura al conflitto israelo-palestinese?

Dopo l’agghiacciante iniziativa di Hamas del 7 ottobre, la comunità internazionale ha tragicamente scoperto che la questione palestinese è ancora lì. Negli anni passati abbiamo avuto una colpevole sottovalutazione della questione. Gli Accordi di Abramo avevano dato l’idea che il riconoscimento e la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i Paesi arabi fosse sufficiente a garantire la sicurezza di Israele. Idea che si è definitivamente infranta il 7 ottobre. Per garantire la pace e la sicurezza di Israele c’è bisogno di dare una soluzione stabile alla questione palestinese, attraverso la creazione di uno Stato palestinese. La soluzione “due popoli, due Stati” è tornata ad essere centrale nella comunità internazionale, ma adesso è molto più difficile raggiungere quel risultato, perché sono emersi tanti ostacoli. Molti protagonisti della scena mondiale suggeriscono oggi come ci sia bisogno di fare riferimento all’Autorità Nazionale palestinese, ma oggi l’Anp è molto debole, ed è necessario rafforzarla. A Gaza, ma anche in Cisgiordania: non dobbiamo ignorare che, mentre vediamo le immagini tragiche che arrivano dalla striscia, c’è anche una fortissima tensione nei territori palestinesi di Cisgiordania, tensione figlia di anni in cui le condizioni di vita dei Palestinesi in quel pezzo di terra non sono migliorate, andando a indebolire drammaticamente il ruolo dell’Anp.

Quali possono essere passi concreti in questo senso?

Una vera assunzione di responsabilità da parte della comunità internazionale è necessaria, perché né israeliani né palestinesi sono in grado al momento di riaprire un canale negoziale da soli. Penso non solo alle Nazioni Unite, ma anche alla Lega Araba o all’Europa. E mentre si crea margine per costituire questo canale, bisogna mandare subito un messaggio di speranza ai palestinesi, speranza di ottenere finalmente un riconoscimento del loro Stato. Al netto di sfaccettature molto complesse, come la questione dei coloni, o il tema di come amministrare Gaza quando la guerra sarà finita. Un’azione rapida è fondamentale.

Pensa che le politiche dell’attuale governo israeliano abbiano contribuito in modo rilevante all’esplosione della crisi?

Assolutamente sì. Penso che una delle condizioni per il riaccendersi delle ostilità sia stato il fallimento della strategia del governo Netanyahu. È del tutto evidente che, politicamente e militarmente, lo shock vissuto da Israele il 7 ottobre non era neanche immaginabile fino a un minuto prima. Penso che Benjamin Netanyahu abbia contribuito molto a inasprire il conflitto negli ultimi decenni, e che la destra israeliana abbia delle forti responsabilità. C’è bisogno di un ricambio nella leadership in entrambe le fazioni. Serve un ricambio di leadership in campo palestinese, con una nuova unità tra le fazioni e nuove leve che possano riprendere in mano il destino del popolo palestinese. E serve anche un ricambio leadership in Israele, perché questa vicenda testimonia il drammatico fallimento dell’approccio di Netanyahu e delle destre israeliane, che ha spinto Israele in una spirale non positiva. Che non è certo il modo di ottenere pace e sicurezza.

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